Danilo Dolci e la disobbedienza civile nonviolenta, dagli anni ’50 ad oggi: “Fare presto (e bene) perché si muore”
Il sociologo, poeta, educatore e attivista della nonviolenza, soprannominato "il Gandhi italiano", avrebbe oggi novantacinque anni. Dalle sue proteste sono passati diversi anni, il mondo intorno è cambiato e i metodi sono mutati. Ma casi simili di disobbedienza civile nonviolenta ci sono ancora oggi, a partire - dice chi l'ha conosciuto e studiato - dal caso della Sea Watch 3
di Sofia Nardacchione |FQ 30 Giugno 2019
Il 28 giugno Danilo Dolci – sociologo, poeta, educatore e attivista della nonviolenza italiana – avrebbe compiuto novantacinque anni. Nato a Trieste nel 1924, si era trasferito in Sicilia nei primi anni Cinquanta. Tra Trappeto e Partinico, in provincia di Palermo, portò avanti una battaglia sociale per i diritti dei più poveri, attraverso gli strumenti della disobbedienza civile e della lotta nonviolenta. Una storia che risulta ancora oggi attuale e più che dibattuto, a partire dai collegamenti con l’impegno delle organizzazioni non governative per salvare i migranti.
Due giorni fa Danilo Dolci avrebbe compiuto novantacinque anni. Di anni, invece, ne ha vissuti settantatré, tra scioperi, proteste nonviolente, digiuni e progetti di partecipazione dal basso. Con un metodo preciso: non osservare dall’alto il degrado generale, ma entrarci, partecipare per comprendere. Alla pari.
Da quelle proteste sono passati diversi anni, il mondo intorno è cambiato e i metodi sono mutati. Ma qualche costante rimane. “Fare presto (e bene) perché si muore”, diceva Dolci mentre intorno a lui, nella Sicilia arretrata e indigente del Secondo dopoguerra, dove aveva deciso di trasferirsi all’inizio degli anni Cinquanta, le persone morivano di malnutrizione, di fame, per mancanza di un lavoro. “Nel 1952 – racconta Marica Tolomelli, professoressa dell’Università di Bologna – Dolci partì con il primo digiuno per protestare contro la realtà inaccettabile per cui ancora si poteva morire di fame nell’Italia post-bellica. Oggi si rischia di morire o si muore per altre situazioni, ma vi sono casi simili di proteste nonviolente, come la decisione di una organizzazione non governativa di violare un’ordinanza per soccorrere persone che stanno rischiando la morte in tempo reale: anche questa è una forma di disobbedienza civile”.
Nella sua rivoluzione “continua e aperta” – come l’ha definita Aldo Capitini, tra i teorizzatori del pensiero nonviolento in Italia – Dolci si univa a chi viveva il disagio e la povertà in prima persona, per superare, in un medesimo dinamismo di liberazione, quelle forme di dominio che tenevano la Sicilia nella violenza: la mafia, il potere feudale ancora forte, le istituzioni immobili. Un tentativo di rivoluzione passato dai digiuni, singoli e collettivi, alla costruzione del “Borgo di Dio”, una casa per ospitare bambini e anziani che non avevano un posto dove andare, fino alla sciopero alla rovescia del 2 febbraio del 1956, quando, con un gruppo di centocinquanta disoccupati andò alla trazzera vecchia di Partinico, una strada comunale abbandonata, resa impraticabile dalle buche e dal fango, che doveva servire per collegare il paese ai campi, per metterla a posto. Un atto simbolico per dimostrare che c’erano tanti uomini disposti a lavorare e che era invece il lavoro che mancava. Non per mancanza di necessità, ma per disinteressamento delle istituzioni: “Facciamo un lavoro vero – spiegò Dolci – anche per rendere palese che anche a Partinico c’è una grande ricchezza, il lavoro; che le braccia non mancano al possibile miracolo di cambiare la faccia di quella terra”.
Quello nonviolento è un metodo che non sempre ha funzionato, almeno non a livello immediato e tangibile. Vera Pegna, traduttrice, attivista e scrittrice, che ha seguito per due anni l’attività di Danilo Dolci alla fine degli anni Cinquanta, per poi passare all’attivismo nel Partito Comunista come consigliera comunale a Caccamo, racconta: “A Partinico, un mio vicino di casa, un operaio edile, che lavorava quando trovava lavoro, mi chiedeva: ‘Come facciamo a digiunare se la sera quasi sempre andiamo a letto con la fame?’. L’idea della nonviolenza era estranea alla cultura popolare di allora e le lotte per il lavoro venivano vissute in termini conflittuali e non di dialogo”.
Se però l’azione di Dolci non sempre ha avuto effetti visibili ed immediati sulla miseria e sulla disperazione locali, li ha avuti nell’attenzione accesa su quei territori, fino a quel momento quasi sempre lasciati da parte, sconosciuti a livello nazionale e internazionale. L’eco più grande è avvenuta a seguito dell’arresto di Dolci e altri sindacalisti e dell’inizio del cosiddetto “Processo all’articolo 4“, a seguito dello sciopero alla rovescia, bloccato dai Carabinieri che con la forza intervengono su una protesta nonviolenta: “Noi non facciamo niente di male – risponde l’attivista alle forze dell’ordine – ci avete detto di smettere di lavorare e vi abbiamo ascoltato. L’articolo 4 della Costituzione dice che il lavoro è un diritto e un dovere di tutti”.
“L’azione di Dolci – spiega Marica Tolomelli – può essere vista come una piccola goccia in un mare segnato invece dalla violenza e la sua efficacia non poteva essere, in Sicilia, così elevata. Ma, al di là dei risultati effettivamente conseguiti, che comunque ci sono stati, la pratica nonviolenta perseguita da Dolci ha avuto grande impatto a livello nazionale e internazionale. Dolci ha proposto una modalità per affrontare i problemi della vita quotidiana di quella popolazione, una modalità che si richiamava, più che a principi teorici di nonviolenza, a una cultura politica profondamente democratica. La nonviolenza era azione che aspirava al coinvolgimento della popolazione, a prese di posizione della popolazione direttamente interessata, nel caso specifico di Trappeto, dalle condizioni di disagio e di indigenza in cui si trovava a vivere”.
La pratica nonviolenta è proseguita in Italia negli anni, spesso più come scelta individuale che collettiva e, in alcuni casi, è diventata orientamento di pensiero e di azione strettamente politica, come nel caso, ad esempio, del Partito Radicale, che ha cercato di tradurre in termini più istituzionali pratiche adottate da quella corrente di pensiero arrivata in Italia da altrove ma che ha trovato un orientamento continuativo nel tempo, anche se minoritario. “In Italia c’è una storia di disobbedienza civile e di azione nonviolenta – conclude Tolomelli – e chi vuole agire oggi attraverso queste pratiche può attingere a un repertorio che, anche se quasi sempre trascurato dalla stessa storiografia, è presente: c’è anche un’altra storia, un’altra tradizione, e se si vogliono legittimare forme di disobbedienza civile e di azione nonviolenta ricorrendo anche al passato, di esempi ce ne sono. A partire da Danilo Dolci”.
Aggiunge, infine, Vera Pegna, mentre racconta la sua esperienza a Partinico e Caccamo collegandosi all’Italia di oggi: “La disobbedienza civile è un grande tema che riguarda la consapevolezza e la responsabilità di ciascuno di noi. Riguarda la scelta tra l’essere realmente cittadini di questo Paese – e quindi conoscere e difendere la Costituzione – e il chiudersi nel proprio ristretto ambito. Questa seconda opzione è un guaio, è un modo di vivere meschino, gretto. E che fa molto comodo a chi ha il potere. Invece, un bell’esempio di disobbedienza civile ce lo sta dando la comandante della nave Sea Watch con 43 rifugiati a bordo cui il governo oppone l’ignominioso rifiuto di approdare a Lampedusa”.