La chiamata «educativa» di Francesco
Eraldo Affinati Avvenire venerdì 16 ottobre 2020
Aiutare un bambino a crescere, rimetterlo in piedi quando cade a terra, fornirgli il nutrimento alimentare e gli strumenti linguistici necessari a esprimersi, significa dare acqua alla pianta dell’umanità. Far battere il cuore del mondo. Assumere il peso del futuro. Non si può affrontare la sfida da soli: abbiamo bisogno di una coscienza comune, da costruire pezzo per pezzo attraverso la scuola, la famiglia, le istituzioni pubbliche e private. Papa Francesco, rilanciando adesso, nella drammatica recrudescenza della pandemia, il Patto educativo globale proclamato già lo scorso anno, è partito da un’evidenza planetaria: duecentocinquanta milioni di ragazzi che, per una ragione o per l’altra, non possono andare a scuola. Il Covid non ha fatto altro che aumentare la tragica schiera, esacerbando il divario sociale fra chi può ricorrere alla didattica a distanza e chi invece non ha gli strumenti adeguati per farlo. È questa la grande ferita della Terra, grave quanto gli incendi che distruggono le foreste tropicali.
La ragione per cui abbiamo bisogno di imprimere una svolta al nostro modello di sviluppo trovando «altri modi per intendere l’economia, la politica, il progresso ». Quando scriviamo 'Casa comune' non dovremmo pensare soltanto ai ghiacci che si staccano dall’Artico, ai fiumi intasati dai rifiuti industriali, ai tronchi bruciati dell’Amazzonia. Se Abdul non impara a leggere e scrivere, se Amina resta analfabeta, se Rashedur e Jonathan continueranno a vivere nella miseria, l’Africa sarà sempre pronta ad esplodere. E l’Asia procederà sbilenca. Ma dall’ultimo videomessaggio, diffuso in streaming in ogni parte del globo, mi sono appuntato anche altri concetti essenziali per comprendere la natura profonda dell’insegnamento.
Utili soprattutto a noi che viviamo nella torretta sforacchiata del Vecchio Continente. Chi si limitasse a consegnare le necessarie competenze alle nuove generazioni, che gridano spesso inascoltate, senza considerare la centralità delle persone coinvolte in tale delicato e cruciale passaggio di testimone, non avrebbe ben chiaro cosa vuol dire educare: darebbe valore soltanto a quelle che il Papa ha giustamente definito «prove standardizzate ».
Abilità, doti, perizie, nozioni, maestrie da mettere nei curricula per essere assunti. Tecniche indispensabili. Eppure non è stabilendo le graduatorie fra chi vince e chi perde al mercato del lavoro, vetrina fosforescente della nostra vita, che potremmo realizzare l’auspicata «civiltà dell’armonia». Per superare la mentalità dello scarto e dare voce ai più giovani e ai meno favoriti dalla sorte, dobbiamo continuare a ricucire la tanto invocata ma troppo spesso strappata rete di relazioni fra eccellenze e medio-crità, uguali e diversi, in vista di quella «cultura integrale partecipativa e poliedrica» che gli stessi governanti, con tutta la loro buona volontà, non potrebbero mai garantirci, se non teoricamente sulle Carte costituzionali.
Si tratta di un processo – seguo sempre la mappa dei miei appunti – realizzabile non «a tavolino», quasi fosse un programma astratto, ma nel rapporto diretto con il volto di fronte a noi, nella realistica consapevolezza che questo non sarà mai un confronto i cui termini si possono stabilire in anticipo. In tale prospettiva la sorgente interna del discorso pronunciato ieri da Francesco resta la più recente enciclica, Fratelli tutti: una condizione spirituale da conquistarsi sul campo delle operazioni, quindi mettendo in conto i costi a volte dolorosi da versare, fra «depressione, odio verbale e bullismo».
È fondamentale anche, nella riflessione del Papa, il richiamo, breve ma incisivo, alla peculiarità femminile del processo educativo, a partire, potremmo aggiungere, dai primi sorrisi materni: mi ha fatto tornare in mente una ragazza nigeriana, reduce da violenze inenarrabili, la cui figlia piccola che teneva in braccio non rideva mai, replicando così la tristezza della madre. Ciò che provai nel vederle entrambe finalmente rinfrancate trova riscontro in quello che ieri abbiamo ascoltato: «Nell’educazione abita il seme della speranza».