Lettera di “parresia” Bergamo 1 maggio 2020

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Lettera di “parresia” Bergamo 1 maggio 2020

Messaggioda lidia.pege » mer mag 06, 2020 3:01 pm

Lettera di “parresia”

Un folto gruppo di cristiani bergamaschi ha firmato questa lettera nella quale esprimono il loro motivato dissenso sul merito e sul metodo del comunicato della Conferenza episcopale italiana con il quale si “esigeva” di tornare a celebrare nelle chiese.

Bergamo, 1 maggio 2020

Siamo un gruppo di donne e uomini, laici e preti, semplici cristiani che amano la Chiesa, immersi come tutti negli eventi pandemici che hanno toccato in modo particolarmente grave la nostra terra, in un clima che a lungo è stato di stringente apprensione e di permanente lutto, e che tuttora resta di una certa emergenza.

Scriviamo perché ci siamo sentiti da credenti profondamente a disagio per le dichiarazioni che, attraverso un comunicato stampa, la Conferenza episcopale italiana ha indirizzato al Governo del paese appena dopo le comunicazioni ufficiali inerenti le disposizioni per la cosiddetta Fase 2.

Molte voci si sono accavallate in questi mesi in un turbine di opinioni, esternazioni, commenti, segnalazioni, punti di vista che ognuno ha potuto esprimere liberamente e, nello stesso tempo, decidere come accogliere.

Una dichiarazione ufficiale come quella della Conferenza dei vescovi italiani assume invece un tono e una qualifica che si sottrae alla libera circolazione delle opinabilità ma porta pubblicamente con sé l’insieme di tutti i cattolici del paese, accomunati ipso facto alle posizioni espresse dai loro pastori. Per questa ragione sentiamo di dover manifestare altrettanto pubblicamente, nella nostra inscindibile condizione di cittadini e di cristiani, la nostra difficoltà a mantenerci solidali con quelle dichiarazioni, sia sotto il profilo del merito, sia soprattutto sotto quello del metodo.

Teniamo anzitutto a premettere che nemmeno noi sottovalutiamo il significato di questo prolungato digiuno eucaristico che fa mancare qualcosa di essenziale alla vita credente. Siamo coscienti di quel bisogno che molti avvertono con crescente intensità come un sentimento che ci appartiene. Molti di noi, del resto, sono impegnati in un lavoro di tutela della qualità e della dignità liturgica che dura da anni e che non ha avuto bisogno di questa sospensione forzata per decidere di esprimersi. Non ci deve quindi essere insegnato che senza eucaristia non esiste la Chiesa e che la liturgia manifesta nel modo più alto e necessario la nostra condizione di discepoli/e del Signore.

Siamo oltretutto perfettamente coscienti del fatto che nessun vuoto eucaristico può essere puramente surrogato con il ricorso alla Parola o con l’esercizio della carità. Non siamo quindi certamente noi a sottostimare la portata di una mancanza che resta tale.

Teniamo anche a confessare la nostra ammirazione per quello che la nostra Chiesa, a partire dal nostro vescovo e in tutte le sue componenti, ha fatto nei giorni più difficili e continua a fare in questi che non sono meno impegnativi. Soprattutto per quel servizio di retrovia che ha assicurato assistenza non meno che presenza a molti bisogni invisibili e disertati, oltre che un sostegno umile e attivo a quanti sono impegnati professionalmente nel compito della cura. Non meno per quelle iniziative annunciate a sostegno dei disagi futuri, in cui anche la nostra Chiesa ha già deciso di mettere concretamente sul tavolo significative risorse economiche.

Proprio perché ammirati e partecipi del servizio umile e assiduo che la presenza della Chiesa sa tenere in momenti come questi, siamo stati feriti dal contenuto e dal tono della dichiarazione diramata dalla CEI la sera di domenica 26 aprile. Non ci sembra in questione la giusta aspettativa di poter concordare con il Governo, nelle sedi opportune e con tempi debiti, il paziente ristabilimento di quelle condizioni in cui può essere possibile per tutti – e senza rischi per i più deboli – tornare alle celebrazioni liturgiche. Ma ci ha molto sorpreso la scelta di un atto così immediato, frontale e perentorio, incapace di leggere e comprendere le oggettive ragioni di rischio che hanno frenato le pubbliche autorità dal consentire disposizioni meno severe.

Ancora di più ci è parso improprio, ingiustificato e particolarmente inopportuno aver evocato la violazione della libertà di culto, muovendo un’accusa che troviamo non solo di una gravità estrema, ma anche di palese inconsistenza. Anzitutto essa rimuove, per impulsività rivendicativa, il vero significato di tali situazioni, portando offesa a quanti nel mondo, cristiani e no, sono veramente impediti di esercitare liberamente il proprio credo religioso. Si mostra indisponibile a riconoscere la natura temporanea di disposizioni che si rendono necessarie, non per fantomatici disegni di controllo sociale della Chiesa, ma per garantire una protezione, ancora indispensabile, a livello collettivo dal contagio, specie per anziani e immunodepressi che in qualsiasi forma di raduno verrebbero esposti a rischi non meno gravi delle scorse settimane, senza ignorare la possibilità di essere tutti potenzialmente vettore di contagio.

Si dimentica, inoltre, di riconoscere il grande spazio offerto alla Chiesa sui mezzi della comunicazione pubblica, che hanno garantito per via televisiva servizi religiosi francamente non disponibile per altre confessioni cristiane e per altri gruppi religiosi. Grazie a una tale possibilità, la Chiesa italiana ha potuto rivolgersi costantemente non solo ai suoi fedeli ma a tutti i cittadini italiani e la presenza del papa ha potuto esercitare quel magistero simbolicamente essenziale che tutti gli hanno riconosciuto.

Ma, persino andando oltre un’evocazione così categorica della libertà di culto, ci ha mortificato l’acidità di fondo di una simile rimostranza, che in un colpo solo trasforma pubblicamente la Chiesa in una corporazione che, tra le tante e come tante altre, non fa altro che rivendicare degli interessi propri indipendentemente dal bene comune e dagli interessi generali.

Ci chiediamo quale impressione abbia potuto lasciare – e quale frutto pastorale abbia potuto portare – un atteggiamento simile presso quella folla di cittadini comuni cui la Chiesa non è meno destinata che a quanti le sono ufficialmente appartenenti.

Ci ha lasciato, infine, particolarmente delusi quel riferimento finale all’intensa attività sociale e caritativa effettivamente promossa dalla Chiesa italiana in favore di tutti, che ci sembra però speso in una chiave rivendicativa e con un vago implicito ricattatorio che sono indegni della vera charitas evangelica, la quale sa bene dove trovare il solo criterio che la rende vero segno del Signore che soccorre l’uomo e trasfigura il mondo: non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra. Quel riferimento finale, che sentiamo come il momento più infelice di tutta la lettera, assegna subliminalmente al servizio della Chiesa un valore di scambio che sconfessa in ogni punto i valori di fondo dell’agire cristiano.

Non ci è sembrato felice nemmeno il modo con cui si è dichiarato di “esigere” la ripresa dell’azione pastorale, non solo per le vaghe tonalità di arroganza contenute nel termine, ma soprattutto perché una tale ingiunzione viene formulata come se la vita della Chiesa in questi mesi fosse rimasta nella più totale sospensione, come se il volume di preghiera cresciuto nelle piccole chiese che sono le nostre case non avesse sufficiente dignità pastorale, come se la prodigiosa inventiva di cui hanno dato prova molti preti e tutte le comunità non avesse quel valore di edificazione che si richiede ad una autentica prassi di Chiesa.

In questo senso ci pare di percepire tra le righe una difficoltà a comprendere questo momento anche come grande occasione pastorale. Ma anche una mancanza di prontezza a una logica dell’esodo e del deserto, di cui questi mesi sono stati un timido anticipo e un remoto addestramento.

La nostra delusione è anche quella di molti credenti che, in silenzio e in solitudine, sono rimasti feriti da parole che hanno trovato dure, improprie e non necessarie. Ma anche quella di molta gente che, senza appartenerle, si aspetta ancora molto dalla Chiesa e continua a guardarla con fiducia. Difficile dire chi sia stato “scandalizzato” di più.

I pastori non si scelgono, si rispettano. Perciò non smetteremo di offrire il nostro servizio nella Chiesa nei modi che saranno loro a stabilire. Tuttavia ci sembrava doveroso, anche accanto a un necessario senso di obbedienza, esprimere il nostro dissenso nei confronti di una prova di forza che in realtà si rivela solo essere un segno di debolezza. Per alcuni aspetti ci sembra anche un sintomo di regressione verso concezioni ecclesiali che pensavamo superate. Ma anche una involontaria manifestazione di noncuranza per gli sforzi di quanti in queste settimane complicate hanno lavorato sodo per contenere gli effetti dell’epidemia, quasi un’offesa per quei medici, infermieri e operatori sanitari di cui si è tanto osannato il sacrificio e di cui si è pronti a compromettere la provvidenziale azione.

Nondimeno ci sembra che pronunciamenti di questo tipo, non a caso prontamente attenuati dalle parole di papa Francesco, primate d’Italia, non giovino a mantenere pacato il dibattito pubblico e serene le singole coscienze, ma piuttosto rischino di aprire ampie praterie per le scorribande di quelli che sono sempre capaci di approfittare della divisione.

Ci chiediamo se questa vicenda non abbia offerto una causa a quanti hanno imparato a usare la religione, specie la nostra, per obiettivi che sono del tutto estranei al desiderio di edificare una vera società civile.

Per tutte queste ragioni, col rispetto dovuto ma anche con la “parresia” che viene raccomandata a ogni battezzato che vive nello Spirito, vogliamo esprimere il nostro dissenso dalla lettera indirizzata al Governo dalla Conferenza episcopale italiana, senza alcun obiettivo particolare, se non quello di dichiarare pubblicamente che, da cristiani e cittadini, non possiamo in coscienza accettare quei toni e quegli argomenti come pronunciati anche a nome nostro.

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Lidia Pege
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