La prima Repubblica finì con Mani Pulite?
di Daniele Mont D'Arpizio BO LIVE
Università Padova
“Nessuno lo avrebbe mai creduto… a noi osservatori esterni quello italiano sembrava il sistema partitico più forte d’Europa – mi ha detto una volta lo storico britannico Donald Sassoon –. Il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana avevano milioni di iscritti, erano stabili e ramificati nella società con banche, cooperative, parrocchie, sindacati…”. Eppure tutto sarebbe venuto giù in qualche mese, segnando una svolta nella storia repubblicana tra un prima e un dopo Mani Pulite. Per questo, dopo aver ascoltato il giornalista Bruno Perini e il giurista Roberto Kostoris, per la terza e ultima tappa della nostra riflessione su quegli anni abbiamo interpellato il politologo Fabrizio Tonello.
“Nel ‘92 ero negli Usa ma amici e colleghi mi aggiornavano quasi minuto per minuto – ricorda Tonello –. Del resto la corruzione era un segreto di Pulcinella: tutta l’Italia sapeva che per fare alcune cose si doveva pagare. In particolare da quando Craxi era diventato segretario del Psi nel 1976 e aveva deciso per un’alleanza strategica ma competitiva con la Dc. In quegli anni nei governi si litigava quanto e più di oggi e il leader socialista voleva farsi spazio: per questo però servivano, allora come oggi, molti quattrini”.
In quel momento ci si rendeva conto delle conseguenze che avrebbe avuto l’indagine?
“Non so se all’epoca si pensasse agli effetti sistemici, anche perché ogni giorno arrivavano novità, qualcun altro confessava. Rispetto alla storiografia successiva vorrei però sottolineare due cose; la prima è che alla fine quasi tutti hanno confessato: non esistevano innocenti, era un sistema organizzato. La seconda è che, tra la fine del ‘93 e l’inizio del ’94, lo story telling di Mani Pulite è stato rovesciato a beneficio delle forze politiche che sono venute dopo. All’inizio gli inviati di Canale 5 e Rete 4 sono appostati in permanenza davanti al palazzo di giustizia di Milano: pochi mesi dopo però si inizia già a parlare di giustizialismo”.
Il crollo dei vecchi partiti non è colpa di Mani Pulite: era terminato il loro ciclo politico
Ecco, come nasce questa accusa?
“Giustizialismo era una parola che esisteva già, ma in origine aveva un riferimento specifico e limitato, e precisamente al movimento che sosteneva il presidente argentino Juan Domingo Perón. Poi improvvisamente questo concetto confluisce in una narrazione sui giudici manettari politicizzati, le cosiddette toghe rosse. Questo però non ha nulla di spontaneo, l’obiettivo di fatto è di coprire l’ascesa politica di Berlusconi e di Forza Italia”.
Per molti Mani Pulite segna lo spartiacque tra la prima e la seconda Repubblica.
“È una distinzione imposta dai giornalisti che però non ha validità scientifica o analitica. Si può parlare di quinta Repubblica in Francia, perché il sistema politico basato sull’ascesa potere di De Gaulle nel 1958 creò una costituzione, una legge elettorale, un nuovo ordinamento semipresidenziale. In Italia non abbiamo cambiato in maniera sostanziale la Costituzione – per fortuna direi – quindi non ha senso parlare di seconda Repubblica. Poi ovviamente ci sono stati anche dei cambiamenti: con l’ingresso in politica di Berlusconi ad esempio viene creato creato il primo vero partito personale, imprimendo una svolta a tutta la politica italiana. Resta il fatto che da un punto strutturale oggi non siamo in una situazione diversa dal 1991”.
È stata Tangentopoli a determinare la fine del vecchio sistema politico?
“No. Il dissolvimento della Democrazia Cristiana è l’effetto dell’esaurimento del suo ciclo politico, quello di un partito che nasce in un’Italia ancora rurale e fortemente religiosa. Nel 1992 invece vivevamo già in un Paese secolarizzato, industriale e fortemente inserito nel contesto europeo: non dimentichiamo che nello stesso anno venne anche firmato il trattato di Maastricht. Era il Paese insomma ad essere cambiato; del resto le stesse dinamiche hanno in parte colpito anche il Pci che, pur essendo toccato solo marginalmente dall’inchiesta, nel giro di qualche anno ha comunque perso lo zoccolo duro dei suoi elettori. Non esistevano insomma più le condizioni per partiti di massa di quel tipo: solo a metà degli anni ‘70 la Dc aveva un milione e mezzo di iscritti, il Pci due milioni. Una partecipazione oggi nemmeno immaginabile”.
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In Italia, a differenza che in Francia, non ha senso parlare di seconda o di terza Repubblica
Il sistema politico insomma non sarebbe stato buttato giù (solo) dai giudici.
“Non credo si sia trattato di una rivoluzione, tantomeno un golpe, ma solo di una trasformazione particolarmente brutale, come a volte avviene quando un assetto politico implode improvvisamente su se stesso. Prendiamo ad esempio quello che è successo nel 2017 in Francia, quando al ballottaggio delle elezioni presidenziali sono arrivati Emmanuel Macron e Marine Le Pen. I candidati dei due partiti storici, i gollisti e socialisti, che si erano alternati alla guida del Paese per 40 anni, sono arrivati rispettivamente terzo e quinto. E senza il bisogno di Mani Pulite”.
Borrelli, il capo del pool di Milano, qualche hanno fa ha addirittura chiesto scusa, come se non fosse valsa la pena. Lei che ne pensa?
“Più che valere la pena era necessario. Come si sa l’azione penale in Italia è obbligatoria e rubare per il partito non era una scriminante. Soprattutto però Mani Pulite ha svelato il livello a cui era giunta la competizione dei partiti per stare dietro alla modernizzazione del Paese, per adeguarsi a un’Italia che stava cambiando. E ha rivelato anche un’altra questione ben più preoccupante: che la politica italiana non sapeva o non voleva darsi gli strumenti per combattere veramente la corruzione. Un problema ancora attuale: i giudici al massimo possono individuare le responsabilità individuali, ma quel genere di fenomeno si può combattere solo se si trovano anticorpi interni al sistema politica. Solo se insomma sono i partiti ad espellere i corrotti”.