togliere l'ergastolo ai boss mafiosi è un gravissimo errore
Inviato: lun ott 07, 2019 3:19 pm
Perché togliere l'ergastolo ai boss mafiosi è un gravissimo errore
Il 22 ottobre i giudici dovranno decidere se sono legittime le norme che vietano i benefici di pena ai capi della criminalità organizzata. Una legge voluta da Giovanni Falcone finora caposaldo della lotta alle cosche
di Lirio Abbate
07 ottobre 2019
Il 22 ottobre nel Palazzo della Consulta si deciderà se cancellare una delle norme per il contrasto alla mafia proposte da Giovanni Falcone quando era direttore generale degli affari penali al ministero di via Arenula. Si discuterà nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che prevede la preclusione all’accesso dei benefici per i detenuti che si trovano all’ergastolo ostativo, cioè per coloro che non hanno mai collaborato con la giustizia. La Corte Costituzionale è chiamata a decidere se questa norma è illegittima.
La legge italiana prevede alcuni benefici per gli ergastolani come il lavoro fuori dal carcere, permessi premio e misure alternative alla detenzione. La legge che comprende l’articolo 4bis, voluto da Falcone che lo scrisse nel 1991 per rafforzare il contrasto alle mafie e tutelare ancor di più ogni singolo giudice di sorveglianza chiamato a decidere sui detenuti, stabilisce che a questi benefici (dopo 10 anni si può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale, termini che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario), non possono accedere gli ergastolani definitivi accusati di omicidi in ambito mafioso, o collegati all’associazione mafiosa o finalizzata al traffico di droga, ai reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Il carattere ostativo di queste condanne può essere superato solo se l’ergastolano collabora con la giustizia.
Nel momento in cui si dovesse decidere di abrogare questa norma si rimetterebbe tutto nelle mani del singolo giudice di sorveglianza che dovrebbe valutare ai fini del trattamento di reclusione se accordare o meno il permesso o la libertà condizionale. In questo modo si scaricherebbe sulle carceri, sugli operatori sociali che redigono le relazioni trattamentali in cui descrivono il comportamento del detenuto e sul singolo giudice di sorveglianza la responsabilità della decisione. E li si sottoporrebbe alle eventuali “pressioni” dei mafiosi condannati al carcere a vita come Leoluca Bagarella, Giovanni Riina, Benedetto Santapaola, Salvino Madonia, Antonino Pesce, Rocco Pesce, Domenico Gallico, Francesco Barbaro, Giovanni Strangio, Giuseppe Nirta, tanto per citarne alcuni tra i più efferati criminali che si sono macchiati le mani con il sangue di decine di vittime innocenti. In questo modo si ritorna al regime che vigeva prima delle stragi del 1992, quando il carcere per i mafiosi era come una passeggiata.
A più riprese diversi politici in passato hanno tentato di cancellare, modificare, annullare questa norma. Sarebbe un vantaggio per i mafiosi che si sono sempre opposti alla collaborazione e che sono stati riconosciuti colpevoli di aver ordinato o eseguito stragi e omicidi.
La Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) lo scorso giugno ha deciso di condannare l’Italia a risarcire un ergastolano ostativo, per la violazione della dignità umana, e il governo ha appellato davanti alla Grande Camera della Corte di Strasburgo. Queste sentenze del Consiglio d’Europa non richiedono di modificare il nostro ordinamento, condannano solo lo Stato a risarcire il danno.
Non si può spazzare via uno dei punti fermi del contrasto alle mafie, e non si può mettere sullo stesso piano il mafioso che collabora, il boss che ha reciso ogni legame con l’organizzazione criminale e i suoi affiliati, con quelli invece che continuano ad aggrapparsi al silenzio imposto dall’omertà del loro codice d’onore senza dare alcun segno di pentimento o desistenza. Si corre il rischio, cancellando questa norma, di far tornare indietro di ventotto anni la lotta alla mafia. Basti pensare a quando rivedremo circolare per le strade di Corleone Leoluca Bagarella e Giovanni Riina, o in quelle di Catania, Nitto Santapaola, con in tasca il loro permesso premio o la loro libertà condizionata. A quella vista dei boss in giro per le strade di paesi e città cosa dovrebbero pensare i familiari delle loro vittime innocenti? Riflettiamoci ancora bene, con coscienza, prima di azzoppare uno strumento fondamentale della lotta alle mafie.
Il 22 ottobre i giudici dovranno decidere se sono legittime le norme che vietano i benefici di pena ai capi della criminalità organizzata. Una legge voluta da Giovanni Falcone finora caposaldo della lotta alle cosche
di Lirio Abbate
07 ottobre 2019
Il 22 ottobre nel Palazzo della Consulta si deciderà se cancellare una delle norme per il contrasto alla mafia proposte da Giovanni Falcone quando era direttore generale degli affari penali al ministero di via Arenula. Si discuterà nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che prevede la preclusione all’accesso dei benefici per i detenuti che si trovano all’ergastolo ostativo, cioè per coloro che non hanno mai collaborato con la giustizia. La Corte Costituzionale è chiamata a decidere se questa norma è illegittima.
La legge italiana prevede alcuni benefici per gli ergastolani come il lavoro fuori dal carcere, permessi premio e misure alternative alla detenzione. La legge che comprende l’articolo 4bis, voluto da Falcone che lo scrisse nel 1991 per rafforzare il contrasto alle mafie e tutelare ancor di più ogni singolo giudice di sorveglianza chiamato a decidere sui detenuti, stabilisce che a questi benefici (dopo 10 anni si può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale, termini che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario), non possono accedere gli ergastolani definitivi accusati di omicidi in ambito mafioso, o collegati all’associazione mafiosa o finalizzata al traffico di droga, ai reati legati alla pornografia o alla prostituzione minorile. Il carattere ostativo di queste condanne può essere superato solo se l’ergastolano collabora con la giustizia.
Nel momento in cui si dovesse decidere di abrogare questa norma si rimetterebbe tutto nelle mani del singolo giudice di sorveglianza che dovrebbe valutare ai fini del trattamento di reclusione se accordare o meno il permesso o la libertà condizionale. In questo modo si scaricherebbe sulle carceri, sugli operatori sociali che redigono le relazioni trattamentali in cui descrivono il comportamento del detenuto e sul singolo giudice di sorveglianza la responsabilità della decisione. E li si sottoporrebbe alle eventuali “pressioni” dei mafiosi condannati al carcere a vita come Leoluca Bagarella, Giovanni Riina, Benedetto Santapaola, Salvino Madonia, Antonino Pesce, Rocco Pesce, Domenico Gallico, Francesco Barbaro, Giovanni Strangio, Giuseppe Nirta, tanto per citarne alcuni tra i più efferati criminali che si sono macchiati le mani con il sangue di decine di vittime innocenti. In questo modo si ritorna al regime che vigeva prima delle stragi del 1992, quando il carcere per i mafiosi era come una passeggiata.
A più riprese diversi politici in passato hanno tentato di cancellare, modificare, annullare questa norma. Sarebbe un vantaggio per i mafiosi che si sono sempre opposti alla collaborazione e che sono stati riconosciuti colpevoli di aver ordinato o eseguito stragi e omicidi.
La Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo) lo scorso giugno ha deciso di condannare l’Italia a risarcire un ergastolano ostativo, per la violazione della dignità umana, e il governo ha appellato davanti alla Grande Camera della Corte di Strasburgo. Queste sentenze del Consiglio d’Europa non richiedono di modificare il nostro ordinamento, condannano solo lo Stato a risarcire il danno.
Non si può spazzare via uno dei punti fermi del contrasto alle mafie, e non si può mettere sullo stesso piano il mafioso che collabora, il boss che ha reciso ogni legame con l’organizzazione criminale e i suoi affiliati, con quelli invece che continuano ad aggrapparsi al silenzio imposto dall’omertà del loro codice d’onore senza dare alcun segno di pentimento o desistenza. Si corre il rischio, cancellando questa norma, di far tornare indietro di ventotto anni la lotta alla mafia. Basti pensare a quando rivedremo circolare per le strade di Corleone Leoluca Bagarella e Giovanni Riina, o in quelle di Catania, Nitto Santapaola, con in tasca il loro permesso premio o la loro libertà condizionata. A quella vista dei boss in giro per le strade di paesi e città cosa dovrebbero pensare i familiari delle loro vittime innocenti? Riflettiamoci ancora bene, con coscienza, prima di azzoppare uno strumento fondamentale della lotta alle mafie.