La Riforma protestante a Padova, tra ombre e luci
Inviato: dom dic 24, 2017 6:54 pm
La Riforma protestante a Padova, tra ombre e luci
21 dicembre 2017 Università di Padova
Era esattamente il 31 ottobre 1517 quando Martin Lutero, allora ancora monaco agostiniano e professore universitario, pubblicava le sue famose 95 tesi. Poco importa oggi se le affisse davvero personalmente alla porta della cappella del castello di Wittenberg, come narra la tradizione: era l’inizio della Riforma protestante, che presto avrebbe scosso l’Europa fin nelle fondamenta, mettendo in discussione la sua unità religiosa e il potere della Chiesa come mediatrice di salvezza. Un sommovimento il cui potente eco sarebbe arrivato anche in Italia, in particolare nella Repubblica Veneta, come è stato messo in luce durante il pomeriggio di studi recentemente organizzato dall’Accademia Galileiana di Padova.
Dell’irradiazione delle nuove idee in terra veneta uno dei maggiori epicentri fu proprio Padova con la sua università, per natura ambiente aperto e cosmopolita. Del resto la stessa Riforma nasce in ambito accademico: Lutero era infatti un brillante teologo del giovane ateneo di Wittenberg, fondato appena 15 anni prima e desideroso di salire nel ranking del tempo. Fu così che Padova accolse alcuni dei nomi più celebri della Riforma in Italia: come Pomponio Algerio, estradato e arso vivo in piazza Navona il 19 agosto 1556, Cirillo Lucaris, che provò a introdurre il protestantesimo nella natìa Grecia e per questo fu ucciso per ordine del Sultano, Pier Paolo Vergerio e Pietro Martire Vermigli, prima ecclesiastici poi pastori riformati.
Anche dopo il Concilio di Trento, come è noto, Padova continuò a ospitare studenti provenienti dai Paesi protestanti, in particolare quelli iscritti alle Nationes Germanicae, gruppi studenteschi da sempre molto nutriti e potenti in città. A partire dal 1616 per gli studenti non cattolici di filosofia e medicina (dal 1635 anche per quelli di diritto), con la creazione dei Collegi Veneti – commissioni d’esame formate solo da docenti dello Studio e nominate da Venezia – fu creato un percorso di laurea garantito direttamente dallo stato veneziano: senza quindi l’intervento del vescovo di Padova, tradizionalmente cancelliere dello Studium padovano, e senza essere costretti – caso unico nell’Italia di allora – alla professio fidei catholicae imposta a partire dal 1564 dalla bolla In sacrosanta.
Eppure tra le famose 95 tesi e la geniale ‘soluzione’ trovata dal Senato veneziano su ispirazione di Paolo Sarpi passa circa un secolo, durante il quale il rapporto tra Riforma e ateneo patavino – e quindi la Repubblica veneziana che di fatto lo controllava – non fu affatto semplice e lineare: lo hanno messo in luce durante le loro relazioni all’Accademia Galileiana Francesco Piovan, del Centro per la storia dell’Università di Padova, e la storica padovana Stefania Malavasi.
Nei primi anni non si segnalano particolari problemi per gli studenti riformati, a parte qualche schermaglia riconducibile agli scontri tra fazioni studentesche che caratterizzavano la vita universitaria di allora. Le cose cambiano a partire dal 1555 con l’elezione al soglio pontificio di Gian Pietro Carafa, che prese il nome di Paolo IV, ideatore dell’Inquisizione romana nonché profondo conoscitore della realtà veneziana, dove aveva soggiornato per anni.
Con il nuovo pontefice infatti da subito status e trattamento degli ‘eretici’ diventano terreno di scontro tra Santa Sede e Venezia, a cominciare dal caso di Pomponio Algerio. Il giovane studente nolano viene di fatto sacrificato sull’altare dei rapporti con il nuovo papa anche se, ha spiegato Stefania Malavasi nel suo intervento, “La concessione dell’estradizione nel caso di sudditi di altri stati era allora una regola; in altri casi simili ma riguardanti cittadini della Repubblica, come quello di Bartolomeo Fonzio, il Consiglio dei Dieci ordinò l’arresto degli eretici ma rifiutò l’estradizione a Roma”.
La situazione è insomma complessa e sfugge alle facili catalogazioni: sempre nel 1555 ad esempio lascia Padova, ad anno accademico in corso, il professore di diritto civile Matteo Gribaldi Moffa, che non faceva mistero delle sue inclinazioni eterodosse; pochi mesi dopo però uno studente luterano, il norimberghese Georg Chanler, viene eletto rettore dei giuristi, una delle più importanti cariche dell’ateneo.
In quel momento, secondo le informazioni raccolte dalla Curia romana, “in Padova sono, tra thedeschi et inglesi, da 400 persone che vivono da heretici, con scandalo della terra [città] et pericolo di corromper li scolari giovani che vedeno questo cattivo essempio”. Qui sta una delle cifre dello scontro tra Chiesa e Venezia, che porterà quest’ultima a proteggere gli studenti riformati: da una parte la tradizionale gelosia della Dominante per le proprie prerogative giurisdizionali, dall’altra l’esigenza di difendere l’università di Padova come fonte di prestigio internazionale e, più prosaicamente, anche di proventi economici.
Elemento tanto più importante in un territorio che, come quello padovano, non era in quel momento particolarmente florido. Nella sua relazione dell’8 marzo 1554 il podestà di Padova Marcantonio Grimani stimava che gli scolari forestieri, mediamente almeno un migliaio, spendessero suppergiù ogni anno per mantenersi “cento ducati per uno, che sonno alla summa de centomille ducati all’anno, beneficio grande a essa Città et alli datij dell’Ilustrissimo Dominio”. “Una cifra di tutto rispetto nel depresso panorama cittadino – commenta Francesco Piovan –, cui i soli tedeschi si stima contribuissero per circa un terzo”.
Fu in questo frangente che l’ala protettiva di Venezia si stese progressivamente sugli studenti stranieri: in questo modo “la Riforma insomma trovò nello studio padovano un luogo ideale dove attecchire e propagarsi – ha spiegato Malavasi – soprattutto negli ambiente più sensibili alle idee d’oltralpe. Smentendo Erasmo, lo studio non fu un ‘porto quietissimo’, ma anzi sede di un vivace dibattito intellettuale e religioso”. Anche se, chiosa Piovan, si trattò di “tolleranza di fatto, parziale e tutta politica: non verso idee religiose, per le quali il patriziato lagunare detentore del potere politico non mostrò particolare inclinazione, ma verso gli scolari che affollavano lo Studio della Serenissima; che privilegiava nettamente i membri delle nationes Germanicae e le ‘eresie’ ormai istituzionalizzate, divenute ormai ‘religioni di stato’ come la luterana o la calvinista”. Una tolleranza per così dire “a geometria variabile”, ma che nondimeno rappresentò comunque un modello ineguagliato di libertà, perlomeno in Italia.
Daniele Mont D’Arpizio
21 dicembre 2017 Università di Padova
Era esattamente il 31 ottobre 1517 quando Martin Lutero, allora ancora monaco agostiniano e professore universitario, pubblicava le sue famose 95 tesi. Poco importa oggi se le affisse davvero personalmente alla porta della cappella del castello di Wittenberg, come narra la tradizione: era l’inizio della Riforma protestante, che presto avrebbe scosso l’Europa fin nelle fondamenta, mettendo in discussione la sua unità religiosa e il potere della Chiesa come mediatrice di salvezza. Un sommovimento il cui potente eco sarebbe arrivato anche in Italia, in particolare nella Repubblica Veneta, come è stato messo in luce durante il pomeriggio di studi recentemente organizzato dall’Accademia Galileiana di Padova.
Dell’irradiazione delle nuove idee in terra veneta uno dei maggiori epicentri fu proprio Padova con la sua università, per natura ambiente aperto e cosmopolita. Del resto la stessa Riforma nasce in ambito accademico: Lutero era infatti un brillante teologo del giovane ateneo di Wittenberg, fondato appena 15 anni prima e desideroso di salire nel ranking del tempo. Fu così che Padova accolse alcuni dei nomi più celebri della Riforma in Italia: come Pomponio Algerio, estradato e arso vivo in piazza Navona il 19 agosto 1556, Cirillo Lucaris, che provò a introdurre il protestantesimo nella natìa Grecia e per questo fu ucciso per ordine del Sultano, Pier Paolo Vergerio e Pietro Martire Vermigli, prima ecclesiastici poi pastori riformati.
Anche dopo il Concilio di Trento, come è noto, Padova continuò a ospitare studenti provenienti dai Paesi protestanti, in particolare quelli iscritti alle Nationes Germanicae, gruppi studenteschi da sempre molto nutriti e potenti in città. A partire dal 1616 per gli studenti non cattolici di filosofia e medicina (dal 1635 anche per quelli di diritto), con la creazione dei Collegi Veneti – commissioni d’esame formate solo da docenti dello Studio e nominate da Venezia – fu creato un percorso di laurea garantito direttamente dallo stato veneziano: senza quindi l’intervento del vescovo di Padova, tradizionalmente cancelliere dello Studium padovano, e senza essere costretti – caso unico nell’Italia di allora – alla professio fidei catholicae imposta a partire dal 1564 dalla bolla In sacrosanta.
Eppure tra le famose 95 tesi e la geniale ‘soluzione’ trovata dal Senato veneziano su ispirazione di Paolo Sarpi passa circa un secolo, durante il quale il rapporto tra Riforma e ateneo patavino – e quindi la Repubblica veneziana che di fatto lo controllava – non fu affatto semplice e lineare: lo hanno messo in luce durante le loro relazioni all’Accademia Galileiana Francesco Piovan, del Centro per la storia dell’Università di Padova, e la storica padovana Stefania Malavasi.
Nei primi anni non si segnalano particolari problemi per gli studenti riformati, a parte qualche schermaglia riconducibile agli scontri tra fazioni studentesche che caratterizzavano la vita universitaria di allora. Le cose cambiano a partire dal 1555 con l’elezione al soglio pontificio di Gian Pietro Carafa, che prese il nome di Paolo IV, ideatore dell’Inquisizione romana nonché profondo conoscitore della realtà veneziana, dove aveva soggiornato per anni.
Con il nuovo pontefice infatti da subito status e trattamento degli ‘eretici’ diventano terreno di scontro tra Santa Sede e Venezia, a cominciare dal caso di Pomponio Algerio. Il giovane studente nolano viene di fatto sacrificato sull’altare dei rapporti con il nuovo papa anche se, ha spiegato Stefania Malavasi nel suo intervento, “La concessione dell’estradizione nel caso di sudditi di altri stati era allora una regola; in altri casi simili ma riguardanti cittadini della Repubblica, come quello di Bartolomeo Fonzio, il Consiglio dei Dieci ordinò l’arresto degli eretici ma rifiutò l’estradizione a Roma”.
La situazione è insomma complessa e sfugge alle facili catalogazioni: sempre nel 1555 ad esempio lascia Padova, ad anno accademico in corso, il professore di diritto civile Matteo Gribaldi Moffa, che non faceva mistero delle sue inclinazioni eterodosse; pochi mesi dopo però uno studente luterano, il norimberghese Georg Chanler, viene eletto rettore dei giuristi, una delle più importanti cariche dell’ateneo.
In quel momento, secondo le informazioni raccolte dalla Curia romana, “in Padova sono, tra thedeschi et inglesi, da 400 persone che vivono da heretici, con scandalo della terra [città] et pericolo di corromper li scolari giovani che vedeno questo cattivo essempio”. Qui sta una delle cifre dello scontro tra Chiesa e Venezia, che porterà quest’ultima a proteggere gli studenti riformati: da una parte la tradizionale gelosia della Dominante per le proprie prerogative giurisdizionali, dall’altra l’esigenza di difendere l’università di Padova come fonte di prestigio internazionale e, più prosaicamente, anche di proventi economici.
Elemento tanto più importante in un territorio che, come quello padovano, non era in quel momento particolarmente florido. Nella sua relazione dell’8 marzo 1554 il podestà di Padova Marcantonio Grimani stimava che gli scolari forestieri, mediamente almeno un migliaio, spendessero suppergiù ogni anno per mantenersi “cento ducati per uno, che sonno alla summa de centomille ducati all’anno, beneficio grande a essa Città et alli datij dell’Ilustrissimo Dominio”. “Una cifra di tutto rispetto nel depresso panorama cittadino – commenta Francesco Piovan –, cui i soli tedeschi si stima contribuissero per circa un terzo”.
Fu in questo frangente che l’ala protettiva di Venezia si stese progressivamente sugli studenti stranieri: in questo modo “la Riforma insomma trovò nello studio padovano un luogo ideale dove attecchire e propagarsi – ha spiegato Malavasi – soprattutto negli ambiente più sensibili alle idee d’oltralpe. Smentendo Erasmo, lo studio non fu un ‘porto quietissimo’, ma anzi sede di un vivace dibattito intellettuale e religioso”. Anche se, chiosa Piovan, si trattò di “tolleranza di fatto, parziale e tutta politica: non verso idee religiose, per le quali il patriziato lagunare detentore del potere politico non mostrò particolare inclinazione, ma verso gli scolari che affollavano lo Studio della Serenissima; che privilegiava nettamente i membri delle nationes Germanicae e le ‘eresie’ ormai istituzionalizzate, divenute ormai ‘religioni di stato’ come la luterana o la calvinista”. Una tolleranza per così dire “a geometria variabile”, ma che nondimeno rappresentò comunque un modello ineguagliato di libertà, perlomeno in Italia.
Daniele Mont D’Arpizio