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108 piccole vittime di mafia

MessaggioInviato: dom ott 08, 2017 8:57 pm
da lidia.pege
108 piccole vittime di mafia
La prima a essere uccisa fu Emanuela Sansone nel 1896 a 17 anni. La più piccola era nel grembo della madre. Ora le loro storie sono raccolte dagli studenti di una scuola di Palermo
Nicola “Cocò” Campolongo fu bruciato vivo con il nonno quando aveva tre anni


La più piccola non era ancora nata, uccisa il 5 agosto 1989 mentre da due mesi era nel grembo della madre, Ida Castelluccio, moglie dell’agente segreto Antonino Agostino. Un delitto intrecciato con i misteri più fitti di Cosa Nostra. I più «vecchi» hanno 17 anni, ammazzati per sbaglio, per vendette trasversali, per ragioni mai chiarite. In tutto 108 bambini vittime delle mafie in Italia, dal 1896 a oggi. La maggior parte tra Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, qualcuno anche nel resto d’Italia. Le loro storie adesso saranno raccolte in un sito, chiamato glinvisibili.it, realizzato dagli studenti della scuola di Palermo Borgese-XXVII Maggio grazie a un finanziamento del ministero dell’Istruzione. Un progetto seguito sin dal 2013 dalla fotografa Lavinia Caminiti, che ha cominciato documentando l’abbandono di targhe e monumenti che ricordano gli omicidi. Da lì il censimento presentato ieri, trentunesimo anniversario della morte di Claudio Domino, ucciso a Palermo a 11 anni.

La prima innocente fucilata con la madre
«Madre e figlia prese a fucilate da dietro un muro. Per vendetta o per isbaglio? Mistero!». È rimasta una pagina ingiallita del Giornale di Sicilia datata 28 dicembre 1896 a raccontare la morte di Emanuela Sansone, uccisa il giorno prima a Palermo, a 17 anni, nella bettola della madre. La prima donna italiana vittima di mafia. Anche se a caldo si parlò della vendetta di un pretendente rifiutato o di un agguato di cui in realtà era destinatario il padre, Salvatore Sansone. Il quale restò illeso, insieme con la moglie, Giuseppa Di Sarno, che diventò la prima collaboratrice di giustizia della storia. Fu il questore Ermanno Sangiorgi a ventilare l’ipotesi che dietro ci fosse la criminalità organizzata, decisa a vendicarsi di Giuseppa che li aveva denunciati per fabbricazione di banconote false. Il rapporto è il primo documento che definisce la mafia: un’organizzazione criminale fondata su un giuramento, la cui attività principale è il racket della protezione.

Il baby testimone eliminato col veleno
Nel suo letto d’ospedale, in preda alla febbre, raccontò di avere visto un contadino preso a bastonate e trascinato via. Quel contadino era Placido Rizzotto, il sindacalista di Corleone rapito e ucciso dalla mafia il 10 marzo del 1948 per poi essere gettato nelle montagne di Rocca Busambra. Di lui nessuna notizia per 64 anni: nel 2012 l’esame del Dna ha confermato che lo scheletro ritrovato in un dirupo - accanto a una cintura e a una moneta da 10 centesimi coniata nel 1920 - era proprio il suo. Testimone di quel delitto fu un bambino di 12 anni, Giuseppe Letizia, pastorello che accudiva le greggi quella notte. Ritrovato l’indomani sotto choc, fu portato nell’ospedale Dei Bianchi a Corleone. Ma l’ospedale era diretto dai dottori Michele Navarra e Ignazio Dell’Aira, uomini d’onore. Misero a tacere il bimbo con un’iniezione di veleno.

Coinvolti nella strage di via dei Georgofili
Falcone e Borsellino sono diventati - giustamente - i simboli della stagione in cui la mafia attaccò frontalmente lo Stato. Ma pochi ricordano i nomi di Nadia e Caterina Nencioni, 9 anni l’una e 50 giorni l’altra, rimaste uccise insieme con la madre Angela e il padre Fabrizio nella strage dei Georgofili a Firenze, la notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993. Un’autobomba imbottita con 277 chili di esplosivo nascosto in una macchina deflagrò a pochi passi dalla Galleria degli Uffizi, uno dei simboli del patrimonio culturale italiano. Morirono tutta la famiglia e uno studente universitario di 22 anni, Dario Capolicchio, raggiunto dalle fiamme nella sua casa da fuori sede. Delle due bambine è rimasta una fotografia che le ritrae felici, con la grande che abbraccia la neonata. Della piccola ne è rimasta un’altra: un fagotto avvolto da un lenzuolo bianco nella braccia di un vigile del fuoco che piange.

Bruciato vivo insieme al nonno
Il nonno, Giuseppe Iannicelli, legato alla «cosca degli zingari» che gestisce il traffico di droga nel Cosentino, se lo portava dietro come una garanzia sulla vita. «Finché c’è lui non mi ammazzano», pensava. E lui era Nicola Campolongo, per tutti Cocò, un fagottino di tre anni che nelle fotografie sorride sdentato davanti a un albero di Natale. E invece, il 16 gennaio del 2014, i killer non hanno avuto pietà neanche di lui. Cocò è morto bruciato vivo sul seggiolino di sicurezza della macchina che fu data alle fiamme dai sicari della ‘ndrangheta, insieme con il nonno e la sua compagna. La fine di una vita passata tra un carcere e l’altro insieme con la madre Antonia Iannicelli, coinvolta in un’inchiesta per traffico di droga insieme al marito. Cella, scarcerazione, ritorno ai domiciliari. Poi l’affidamento al nonno, che se lo portava in macchina durante i suoi incontri con i trafficanti. Un piccolo scudo umano.

Prima strangolato poi sciolto nell’acido
Il luogo dove fu rapito, a San Giuseppe Jato, è diventato adesso un Giardino della memoria. Per non dimenticare. Perché il suo nome evoca il fondo dell’abisso, la violazione del tabù dei tabù: Giuseppe Di Matteo, ucciso a undici anni dopo 779 giorni di prigionia per vendetta contro il padre che aveva cominciato a collaborare con la giustizia. Prima portato via con l’inganno dal maneggio in cui si allenava, poi trascinato di covo in covo con una catena al collo, infine - era l’11 gennaio del 1996 - strangolato e sciolto nell’acido. Mandante di quel delitto Giovanni Brusca, il più crudele dei boss di Cosa Nostra. «Vieni, ti portiamo da tuo padre», gli dissero sei mafiosi travestiti da poliziotti. E Giuseppe li seguì come un agnellino. Lui, Santino Di Matteo, prima vita da impiegato del macello comunale del paese di Altofonte, seconda vita da killer di Cosa Nostra, adesso è ospite di una comunità religiosa a Roma, l’Opera San Giustino.

I confetti neri di Valentina
Sorride Valentina, nel suo vestitino a quadretti verdi e il cappello in pendant. Sorride aggrappandosi a una ringhiera. Curiosa, instancabile, sorridente, come ancora la raccontano i familiari. Era rapita dai colori e dai profumi di rose e gerbere, quando, il 12 novembre del 2000, venne colpita da una raffica di proiettili in testa mentre si trovava in braccio alla madre nel negozio di fiori dello zio a Pollena Trocchia, cittadina in provincia di Napoli. A sparare è un commando di camorra composto da quattro persone a bordo di due motociclette: obiettivo del gruppo di fuoco è Fausto Terracciano, lo zio di Valentina. Innocente anche lui, ma fratellastro del «nemico» Domenico Arlistico. Una vendetta trasversale. A morire, dopo un giorno di agonia, è soltanto la piccola. Un delitto che innesca una scia di sangue. Al funerale della bambina vengono distribuiti confetti neri, in contrasto con la piccola bara bianca

Mamma e gemellini morti nell’attentato
È una storia da tragedia greca, con una mamma e i suoi due gemelli di sei anni catapultati fuori dalla macchina su cui viaggiavano, il padre che accorre sul luogo dell’esplosione insieme ai vicini, si aggira intorno a quel che resta dell’auto, non la riconosce, accoglie la polizia e poi va al lavoro convinto che i bambini siano a scuola e la moglie a casa. E invece sul posto di lavoro riceve la più atroce telefonata della vita.

È la storia dei piccoli Giuseppe e Salvatore Asta, uccisi il 2 aprile 1985, vittime incidentali insieme con la madre dell’attentato al giudice Carlo Palermo a Bonagia, in provincia di Trapani. L’autobomba è piazzata sul ciglio della strada da cui passa la macchina con la famigliola, che fa da scudo all’auto del magistrato. Nunzio Asta, il padre, morirà otto anni dopo di cuore, a soli 46 anni. Della famiglia Asta è rimasta solo la figlia maggiore Margherita, oggi in prima linea nell’associazione Libera.
08/10/2017 La Stampa laura anello