Italia in declino Veneto devastato dal malaffare
Inviato: dom set 10, 2017 4:15 pm
Massimo Cacciari: Italia in declino Veneto devastato dal malaffare
Scandalo Mose: «Processano il povero Orsoni ma, a parte il sottoscritto, nessuno si oppose»
09 settembre 2017
VENEZIA. La fine della socialdemocrazia, la politica nel disordine globale: di scena al Festival della politica, a Mestre, il filosofo Massimo Cacciari vola alto da par suo salvo ripiombare come un falco sull’attualità del Paese – «L’Italia destinata ad un ruolo marginale nel contesto europeo e globale» – e del Veneto «epicentro di un malaffare che assomma il più grande scandalo europeo, quello del Mose, all’incredibile rapina compiuta dai banchieri, tuttora impunita».
Professore, lei colloca i declino del modello socialdemocratico tra gli effetti politico-istitutuzionali di un mondo in vorticoso cambiamento e alla ricerca di nuovi equilibri.
«La crisi della socialdemocrazia coincide con la fine della stagione politico-culturale che ha scandito la storia europea dal 1945 alla caduta del Muro, ovvero con l’inizio del disordine globale, caratterizzato dall’ingresso di nuovi soggetti, la Cina e il suo grande impero in primis, che hanno alterato la diarchia precedente rappresentata da Stati Uniti e Unione Sovietica. Perciò, crollo del riformismo di sinistra e venir meno dell’ordine planetario altro non sono che angolature diverse del medesimo fenomeno».
Anche l’Italia sconta il tramonto del welfare socialista e democratico?
«Da noi, a differenza della Mitteleuropa, della Francia, della Gran Bretagna laburista, un’autentica socialdemocrazia non c’è mai stata. Il Pci di Berlinguer ha provato, in modo spurio, a surrogarla; ma per riuscirci davvero avrebbe dovuto tradurre la presa di distanza dal’Urss in una critica radicale e conseguente, sull’esempio della Spd tedesca a Bad Godesberg. Ma questo non è avvenuto. Il Psi? Forse Craxi voleva giocare la carta delle grandi riforme ma il suo partito non era all’altezza del compito e in ogni caso aveva scelto la strada della contrapposizione a sinistra. Quanto agli esperimenti successivi – l’Ulivo, la Margherita, il Pd – hanno tentato di aggirare l’ostacolo con esiti sostanzialmente fallimentari».
Il partito democratico di Matteo Renzi rivendica l’eredità del riformismo progressista.
«Ma il Pd non è neanche un partito, è una schiera di cooptati e di cortigiani attorno ad un capo, quelli che gli vanno dietro prima o poi se ne andranno, alcuni l’hanno già fatto».
Diagnosi impietosa, la sua.
«No, realistica».
L’onda lunga del disordine globale spinge i migranti arabo-africani verso il nostro continente, meglio, verso le coste italiane che ne rappresentano l’immediata porta d’accesso.
«Certo, se viene meno la gerarchia mondiale, se manca chi comanda, fosse pure un’odiosa dittatura, allora diventa impossibile governare i grandi fenomeni. Le diseguaglianze esplodono, i confini si abbattono, la gente afflitta da guerra e fame cerca una vita migliore, è sempre stato così: la storia umana è storia di grandi migrazioni. Oggi si dirigono verso il Mediterraneo e i Balcani, domani chissà dove. In assenza di un accordo tra le grandi potenze, ci si accontenterà di non vedere più questi disperati, magari scendendo a patti con il capobanda di turno».
A fronte delle tensioni nel Paese, dove l’intolleranza razzista sembra in agguato, il ministro degli Interni, Marco Minniti, promette di coniugare sicurezza e solidarietà.
«La solidarietà? Dove? Nei lager libici? Ma mi faccia il piacere. Aiutare questi poveracci non porta consensi alla politica che, incapace di affrontare il problema, si riduce ad inseguire le campagne populiste di Salvini».
Chi non ha esitazioni nell’ergersi a difensore degli ultimi, sfidando l’impopolarità diffusa, è Papa Francesco. Lei è stato amico e interlocutore del cardinale Carlo Maria Martini, che di Jorge Mario Bergoglio fu il mentore. Si aspettava un Pontefice terzomondista?
«È un Papa che fa il Papa, ha ben compreso che, dal Concilio in poi, la dottrina sociale cattolica esige che la Chiesa si schieri a fianco degli umili, dei poveri, dei repressi. E lo fa senza se e senza ma, a differenza di chi piange lacrime di coccodrillo per la foto del bimbo affogato e poi finge di non vedere le stragi quotidiane di innocenti. Bergoglio ha appreso la lezione di Martini, non possiede la sua profondità storica e culturale ma agisce con coraggio e coerenza».
L’Italia sembra uscita dal buco nero della recessione però i nodi irrisolti restano numerosi e la sua influenza nel contesto internazionale vacilla...
«Sembra che l’economia vada un po’ meno peggio, anche se resta fanalino per crescita su scala europea. In ogni caso, il ruolo dell’Italia nello scenario globale è marginale e stavolta non è colpa dei politici, il mondo è cambiato, la fine dei due blocchi contrapposti ci ha sottratto la funzione strategica di cerniera tra Est e Ovest, conclusa la guerra fredda avremmo potuto diventare protagonisti della costruzione della nuova Europa, Ciampi e Prodi ci hanno provato, poi più nulla. Ora siamo una provincia qualsiasi».
Democratici, centrodestra, M5S. Chi la spunterà alle prossime politiche?
«Berlusconi si comporta con grande intelligenza, non demonizza nessuno, dimentica l’anticomunismo da macchietta, sa bene che non potrà essere lui il candidato premier e la Lega, ormai una destra nazionale, lo spalleggia; gli manca un’ala sociale ma se la inventerà, siano i pensionati o gli animalisti. Il Pd? Potrebbe combinare qualcosa se Renzi la smettesse di blaterale e lasciasse spazio ad altri, chessò, Gentiloni o Minniti. Dei 5 Stelle io ho sempre parlato bene, perché hanno evitato che la protesta assumesse una deriva di destra estrema. Mi spaventa una loro presenza esclusiva al Governo, senza alleati né mediazioni. Un azzardo, come il caso Roma insegna».
E la “piccola patria” veneta?
«In Veneto sono accadute cose pazzesche. Il Mose, 8 miliardi andati in fumo, rappresenta il maggior scandalo d’Europa e non può essere ridotto a un processo al povero Giorgio Orsoni: tranne il sottoscritto erano tutti più o meno d’accordo. E poi i banchieri criminali, tuttora impuniti, che hanno rapinato i risparmi della gente mentre gli imprenditori si suicidavano. Tutto questo è successo in una regione che dal 1995 ad oggi ha votato sempre e soltanto Galan e Zaia. Questa circostanza non può passare in cavalleria».
Il 22 ottobre il governatore Luca Zaia chiama i veneti al referendum.
«È la risposta comica ad un’esigenza terribilmente seria, quella dell’autonomia, che in Veneto è avvertita come in nessun’altra regione italiana, lo capisco meglio ora, vivendo a Milano. Zaia fa bene a coltivare questa spinta, tanto più alla luce della controriforma centralista di Roma, ma il suo approccio non sta in piedi. Negli anni Novanta, insieme a Giorgio Lago e al suo progetto Nordest, abbiamo posto in agenda la riforma federalista ma la politica nazionale ha imboccato la strada opposta e la “questione veneta” è lungi dall’essere risolta».
È fisiologico un rapporto Regione-Governo
improntato allo scontro quotidiano?
«È l’effetto combinato della demagogia leghista, degli strascichi della recessione, delle pulsioni etniche, e della sordità romana al cambiamento. Il tema dell’identità veneta esiste, non è una parodia, ma non sarà Zaia a darvi risposta».
Filippo Tosatto mattino
Scandalo Mose: «Processano il povero Orsoni ma, a parte il sottoscritto, nessuno si oppose»
09 settembre 2017
VENEZIA. La fine della socialdemocrazia, la politica nel disordine globale: di scena al Festival della politica, a Mestre, il filosofo Massimo Cacciari vola alto da par suo salvo ripiombare come un falco sull’attualità del Paese – «L’Italia destinata ad un ruolo marginale nel contesto europeo e globale» – e del Veneto «epicentro di un malaffare che assomma il più grande scandalo europeo, quello del Mose, all’incredibile rapina compiuta dai banchieri, tuttora impunita».
Professore, lei colloca i declino del modello socialdemocratico tra gli effetti politico-istitutuzionali di un mondo in vorticoso cambiamento e alla ricerca di nuovi equilibri.
«La crisi della socialdemocrazia coincide con la fine della stagione politico-culturale che ha scandito la storia europea dal 1945 alla caduta del Muro, ovvero con l’inizio del disordine globale, caratterizzato dall’ingresso di nuovi soggetti, la Cina e il suo grande impero in primis, che hanno alterato la diarchia precedente rappresentata da Stati Uniti e Unione Sovietica. Perciò, crollo del riformismo di sinistra e venir meno dell’ordine planetario altro non sono che angolature diverse del medesimo fenomeno».
Anche l’Italia sconta il tramonto del welfare socialista e democratico?
«Da noi, a differenza della Mitteleuropa, della Francia, della Gran Bretagna laburista, un’autentica socialdemocrazia non c’è mai stata. Il Pci di Berlinguer ha provato, in modo spurio, a surrogarla; ma per riuscirci davvero avrebbe dovuto tradurre la presa di distanza dal’Urss in una critica radicale e conseguente, sull’esempio della Spd tedesca a Bad Godesberg. Ma questo non è avvenuto. Il Psi? Forse Craxi voleva giocare la carta delle grandi riforme ma il suo partito non era all’altezza del compito e in ogni caso aveva scelto la strada della contrapposizione a sinistra. Quanto agli esperimenti successivi – l’Ulivo, la Margherita, il Pd – hanno tentato di aggirare l’ostacolo con esiti sostanzialmente fallimentari».
Il partito democratico di Matteo Renzi rivendica l’eredità del riformismo progressista.
«Ma il Pd non è neanche un partito, è una schiera di cooptati e di cortigiani attorno ad un capo, quelli che gli vanno dietro prima o poi se ne andranno, alcuni l’hanno già fatto».
Diagnosi impietosa, la sua.
«No, realistica».
L’onda lunga del disordine globale spinge i migranti arabo-africani verso il nostro continente, meglio, verso le coste italiane che ne rappresentano l’immediata porta d’accesso.
«Certo, se viene meno la gerarchia mondiale, se manca chi comanda, fosse pure un’odiosa dittatura, allora diventa impossibile governare i grandi fenomeni. Le diseguaglianze esplodono, i confini si abbattono, la gente afflitta da guerra e fame cerca una vita migliore, è sempre stato così: la storia umana è storia di grandi migrazioni. Oggi si dirigono verso il Mediterraneo e i Balcani, domani chissà dove. In assenza di un accordo tra le grandi potenze, ci si accontenterà di non vedere più questi disperati, magari scendendo a patti con il capobanda di turno».
A fronte delle tensioni nel Paese, dove l’intolleranza razzista sembra in agguato, il ministro degli Interni, Marco Minniti, promette di coniugare sicurezza e solidarietà.
«La solidarietà? Dove? Nei lager libici? Ma mi faccia il piacere. Aiutare questi poveracci non porta consensi alla politica che, incapace di affrontare il problema, si riduce ad inseguire le campagne populiste di Salvini».
Chi non ha esitazioni nell’ergersi a difensore degli ultimi, sfidando l’impopolarità diffusa, è Papa Francesco. Lei è stato amico e interlocutore del cardinale Carlo Maria Martini, che di Jorge Mario Bergoglio fu il mentore. Si aspettava un Pontefice terzomondista?
«È un Papa che fa il Papa, ha ben compreso che, dal Concilio in poi, la dottrina sociale cattolica esige che la Chiesa si schieri a fianco degli umili, dei poveri, dei repressi. E lo fa senza se e senza ma, a differenza di chi piange lacrime di coccodrillo per la foto del bimbo affogato e poi finge di non vedere le stragi quotidiane di innocenti. Bergoglio ha appreso la lezione di Martini, non possiede la sua profondità storica e culturale ma agisce con coraggio e coerenza».
L’Italia sembra uscita dal buco nero della recessione però i nodi irrisolti restano numerosi e la sua influenza nel contesto internazionale vacilla...
«Sembra che l’economia vada un po’ meno peggio, anche se resta fanalino per crescita su scala europea. In ogni caso, il ruolo dell’Italia nello scenario globale è marginale e stavolta non è colpa dei politici, il mondo è cambiato, la fine dei due blocchi contrapposti ci ha sottratto la funzione strategica di cerniera tra Est e Ovest, conclusa la guerra fredda avremmo potuto diventare protagonisti della costruzione della nuova Europa, Ciampi e Prodi ci hanno provato, poi più nulla. Ora siamo una provincia qualsiasi».
Democratici, centrodestra, M5S. Chi la spunterà alle prossime politiche?
«Berlusconi si comporta con grande intelligenza, non demonizza nessuno, dimentica l’anticomunismo da macchietta, sa bene che non potrà essere lui il candidato premier e la Lega, ormai una destra nazionale, lo spalleggia; gli manca un’ala sociale ma se la inventerà, siano i pensionati o gli animalisti. Il Pd? Potrebbe combinare qualcosa se Renzi la smettesse di blaterale e lasciasse spazio ad altri, chessò, Gentiloni o Minniti. Dei 5 Stelle io ho sempre parlato bene, perché hanno evitato che la protesta assumesse una deriva di destra estrema. Mi spaventa una loro presenza esclusiva al Governo, senza alleati né mediazioni. Un azzardo, come il caso Roma insegna».
E la “piccola patria” veneta?
«In Veneto sono accadute cose pazzesche. Il Mose, 8 miliardi andati in fumo, rappresenta il maggior scandalo d’Europa e non può essere ridotto a un processo al povero Giorgio Orsoni: tranne il sottoscritto erano tutti più o meno d’accordo. E poi i banchieri criminali, tuttora impuniti, che hanno rapinato i risparmi della gente mentre gli imprenditori si suicidavano. Tutto questo è successo in una regione che dal 1995 ad oggi ha votato sempre e soltanto Galan e Zaia. Questa circostanza non può passare in cavalleria».
Il 22 ottobre il governatore Luca Zaia chiama i veneti al referendum.
«È la risposta comica ad un’esigenza terribilmente seria, quella dell’autonomia, che in Veneto è avvertita come in nessun’altra regione italiana, lo capisco meglio ora, vivendo a Milano. Zaia fa bene a coltivare questa spinta, tanto più alla luce della controriforma centralista di Roma, ma il suo approccio non sta in piedi. Negli anni Novanta, insieme a Giorgio Lago e al suo progetto Nordest, abbiamo posto in agenda la riforma federalista ma la politica nazionale ha imboccato la strada opposta e la “questione veneta” è lungi dall’essere risolta».
È fisiologico un rapporto Regione-Governo
improntato allo scontro quotidiano?
«È l’effetto combinato della demagogia leghista, degli strascichi della recessione, delle pulsioni etniche, e della sordità romana al cambiamento. Il tema dell’identità veneta esiste, non è una parodia, ma non sarà Zaia a darvi risposta».
Filippo Tosatto mattino