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I sindaci delle Terme stoppano Berlato

MessaggioInviato: mar feb 14, 2017 2:18 pm
da lidia.pege
I sindaci delle Terme stoppano Berlato (Il Mattino)

Secco no a una riduzione del perimetro dell’oasi. Mortandello: «Semmai pensiamo di ampliarla"
(Federico Franchin)
I confini di pertinenza del Parco dei Colli Euganei non si toccano, né ad Abano, né a Montegrotto. A dirlo sono il commissario straordinario del Comune di Abano, Pasquale Aversa, e il sindaco di Montegrotto Riccardo Mortandello. Nessuna riduzione del Parco è possibile per i due amministratori dei due comuni termali. «Non c’è alcuna intenzione di modificare i confini esistenti», dice il commissario straordinario di Abano Pasquale Aversa. «Il Comune non appoggerà nessuna riduzione del perimetro dell’area protetta. Quindi per quanto mi compete non ci saranno cambiamenti, a meno che in futuro dagli uffici comunali non arrivino osservazioni in tal senso che possano portare a modifiche». Com’è noto, in sede di discussione del bilancio regionale il consigliere Sergio Berlato ha proposto di ridurre i confini dell’oasi per rendere possibile la caccia ai cinghiali. La proposta è stata congelata dopo le proteste di sindaci, associazioni e categorie. Ai sindaci è stato quindi rivolto l’invito a proporre una geografia alternativa e condivisa entro il 30 marzo. «In consiglio comunale abbiamo presentato una mozione, a firma del consigliere Sponton con la quale confermeremo i confini del Parco Colli nel Comune di Montegrotto», annuncia il sindaco di Montegrotto Riccardo Mortandello. «Anzi, a nostro avviso è da prendere in analisi l’allargamento del perimetro. Appare sempre più evidente che l’intento dei consiglieri Berlato, Barison, Finco e Guadagnini con il loro emendamento non era quello di proporre una vera soluzione al problema dei cinghiali, ma semplicemente ri-perimetrare il Parco per tornaconti elettorali e per minare la natura stessa dell’ente. Il Parco va cambiato, perché così com’è non può continuare a esistere. Ma con la fretta si rischia di vanificare alcuni progetti importanti come quello che vede il territorio candidato a diventare “riserva della biosfera” dell’Unesco». Il sindaco di Montegrotto Mortandello poi guarda al futuro: «Bisogna coinvolgere nella gestione del Parco non solo i sindaci, che spesso hanno utilizzato l’ente in funzione dei loro miopi tornaconti, ma anche i numerosi portatori di interesse diretto, albergatori, agricoltori, ristoratori, associazioni ambientaliste e culturali».

“Contro i cinghiali la caccia non serve”
Sammuri, presidente di Federparchi, ha 30 anni di esperienza in Toscana: «Lasciate stare i confini dell’oasi protetta»
L’interesse dei cacciatori. Chi spara vorrà sempre avere una concentrazione elevata di esemplari. Molto meglio investire sulle catture con esche
(Cristiano Cadoni)
«Non serve». Risposta secca, nessuna possibilità di interpretazione. Restringere i confini del Parco Colli per aprire la caccia ai cinghiali e ridurne il numero – oggi abbondantemente sopra le diecimila unità – non ha nessuna utilità. È il parere super partes di Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi e del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscani, uno che per oltre trent’anni, a Siena e in Maremma, si è occupato di gestione dei suidi. «Qui c’è l’università della caccia al cinghiale», scherza, «ai primi del ’900 in Italia eravamo gli unici ad averlo, tanto che lo si chiamava cinghiale maremmano». Ieri a Galzignano per un incontro promosso dal sottosegretario Barbara Degani con i quindici sindaci dell’area Parco – si parlava di compatibilità tra revisione dell’area protetta e normativa nazionale – Sammuri ha trovato il tempo per dire la sua sulla proposta di legge promossa in Regione dal consigliere Berlato. E sull’ipotesi, non troppo remota, di un restringimento del Parco per far spazio ai cacciatori. «Partiamo da due considerazioni», attacca Sammuri. «Quello che sta succedendo qui, è già successo in tante altre zone d’Italia dove sono stati introdotti cinghiali di origine centro-europea, più grossi dei nostri e senza alcun limite visto che l’immissione è stata legale fino a un anno e mezzo fa, tranne che nelle regioni in cui si era legiferato. La seconda considerazione è che la caccia non limita la presenza dei cinghiali. Il motivo è semplice e anche legittimo dal punto di vista dei cacciatori. Chi va a caccia non ha nessun interesse a limitare la specie. Con una gestione oculata, la risorsa non finisce mai».
Quindi lei sostiene che aprire un territorio alla caccia produrrà esattamente l’esito opposto a quello che viene promesso?
«Chi caccia vuole una densità elevata di esemplari da cacciare, è ovvio. Ecco perché lo strumento migliore non è questo. Nel parco che presiedo, il cinghiale c’è solo all’Elba che è per metà parco e per metà no. Nei 12.500 ettari di parco noi leviamo 1.200 cinghiali all’anno. Nella stessa superficie fuori dal parco, otto squadre ne abbattono 400. E non perché non sono in grado di abbatterne di più, ma perché si fermano, altrimenti l’anno dopo devono abbatterne di meno. Con questa accortezza e con altre – per esempio non sparare alle femmine gravide – sanno mantenere costante il numero. Il cacciatore è un intelligente gestore della sua risorsa».
E allora come si fa, in un parco, a limitare i cinghiali?
«La gestione fatta dall’ente parco è sicuramente più efficiente, anche perché si attua con sistemi che ai cacciatori non sono consentiti, a cominciare dal fatto che è attiva 365 giorni all’anno. Noi usiamo i recinti di cattura e possiamo abbattere in qualsiasi momento. La caccia ha regole costruite nell’ottica della tutela dell’animale. Un regime di cattura per la limitazione ha una strategia opposta, si inasprisce nei periodi in cui può incidere maggiormente. Però mi faccia aggiungere una cosa a proposito del numero…».
Mi dica pure.
«Vado controcorrente, ma sostengo che un censimento non serve. Si conta una specie per fare un prelievo e mantenere una densità stabile. Nel caso del cinghiale, più se ne levano, meglio è. Tranne in quelle zone dove fa parte della catena alimentare, ovviamente. E comunque in condizioni normali il cinghiale si moltiplica del cento per cento ogni anno. In tutte le zone dove è stato introdotto abusivamente bisogna concentrarsi sul monitoraggio dei danni che non sono solo quelli all’agricoltura, ma anche quelli alla biodiversità».
Ma qual è il sistema più efficace, per la sua esperienza?
«Il cinghiale è facile da catturare, non c’è nessun altro animale che si prende così facilmente. Con le esche alimentari non si sbaglia. Con ogni trappola si fanno grandi numeri di catture. Noi su 1.200 che leviamo dal parco ogni anno, 950 li prendiamo in trappola e solo 250 li abbattiamo. I due sistemi, combinati, danno l’esito migliore, perché in alcune zone è decisamente più efficace sparare. Però su questo c’è una divisione ideologica, basti pensare che su 14 parchi nazionali che fanno attività per la limitazione dei cinghiali, solo due usano entrambi i metodi, sette fanno abbattimenti e cinque catture. Ma non per ragioni tecniche, solo per motivi socio-politici».
E la sterilizzazione?
«Non funziona. Cioè, è stato appurato che per una sterilizzazione efficace io dovrei raggiungere almeno il 70 per cento della popolazione. Ma è costosissimo, perché dovrei catturare le femmine, sottoporle a intervento e poi liberarle. Ma non ha senso, anche perché poi fanno comunque danni. Le femmine non sterilizzate, inoltre, si riproducono più rapidamente. Servirebbe un prodotto che sterilizza per via orale, ma ci vorrebbe anche la certezza che finisca solo in bocca ai cinghiali e non a specie in estinzione. E questo prodotto ancora non esiste».
Possibile che si debba ancora discutere del senso dell’esistenza di un parco solo perché non si è stati capaci di risolvere un problema come quello dei cinghiali?
«La colpa è anche di chi ha gestito male i parchi. L’opinione pubblica ha difficoltà a capire il tema. È più facile dire che ci sono troppi cinghiali e convincere tutti che sparare è la soluzione. Perfino gli agricoltori hanno pensato che i cacciatori fossero loro alleati».
E allora che si fa?
«Si potenzia la prevenzione, con i recinti giusti. E si lavora sul contenimento del numero, con sistemi efficaci. Lasciando stare il parco, che semmai ha bisogno di maggiori tutele».

La Regione avvia un censimento in due atti. Ieri 102 persone impegnate sul Vendevolo
(cric)
Diecimila, di sicuro. Forse anche di più. Nonostante il record di abbattimenti registrato l’anno scorso (1.124, per un totale di 7.880 negli ultimi quindici anni), il numero dei cinghiali sui Colli Euganei resta elevatissimo. Si stima che la popolazione attuale sia molto vicina alle quindicimila unità. Ma un censimento non è mai stato fatto. E anche se esperti come Sammuri (vedi intervista a fianco) sostengono che contarli è inutile («Tanto bisogna eliminarne il più possibile»), la Regione ieri ha fatto svolgere un censimento sul monte Vendevolo, nella frazione di Valnogaredo, territorio del comune di Cinto Euganeo. L’area interessata dall’operazione si estende per 38 ettari, con presenza prevalente – fanno sapere dalla Regione – di corbezzoli e castagni. Oltre ai selecontrollori del Parco, sono stati impiegati studenti dell’università di Padova, per un totale di 102 persone. Presenti sul posto anche il commissario dell’ente Parco Enrico Specchio, l’assessore regionale ai Parchi Cristiano Corazzari e l’assessore regionale all’Agricoltura, caccia e pesca Giuseppe Pan. «L’operazione, particolarmente difficile per la presenza di vegetazione fitta di macchia mediterranea, si è svolta con successo», annuncia l’ufficio stampa della giunta regionale. «Sono stati osservati cinghiali di diverse classi di età e sesso e nei prossimi giorni verranno comunicati i dati ufficiali». L’operazione di censimento sarà ripetuta domenica prossima sul monte Venda. «Questi due censimenti hanno validità scientifica per acquisire dati certi sul numero e la tipologia di ungulati all’interno del Parco», dicono gli assessori Corazzari e Pan, «e permetteranno di perfezionare l’azione di contenimento».
14 febbraio 2017