Testamento biologico: il silenzio delle Camere, il rimedio dei giudici
C’era una volta il testamento biologico. C’era, perché questa espressione, che è la più conosciuta e presente nei dibattiti in cui si intrecciano etica, diritto e medicina, non è amata né dagli studiosi né dagli operatori della sanità: con un testamento, argomentano, si dispone dei propri beni; invece la dichiarazione con cui si manifesta una volontà riguardo alle cure e ai trattamenti che la propria persona, in futuro, dovrà ricevere quando quella stessa volontà non potrà essere espressa, trascende gli aspetti patrimoniali e possiede molteplici implicazioni mediche, emotive, persino spirituali, nel senso più ampio. E dunque oggi, tanto per inchinarsi alla passione per gli acronimi, si parla di DAT, dichiarazioni anticipate di trattamento: uno dei tanti fantasmi giuridici del nostro ordinamento, un istituto che non esiste (se non in estemporanei registri comunali) ma del quale da anni si discute circa l’opportunità che divenga norma giuridica.
Medici, giuristi e filosofi ne hanno parlato a un incontro promosso dal laboratorio di bioetica clinica dell’università di Padova. E la disputa inizia dal nome: “dichiarazioni” oppure “direttive” o “disposizioni”? La differenza non è estetica: si tratta di capire se le volontà del paziente devono essere una manifestazione di volontà indicativa ma non vincolante, oppure se devono possedere un valore obbligatorio nei confronti di coloro che queste volontà devono applicare. Un dilemma, ha sottolineato il filosofo Antonio Da Re, non da poco: perché nel caso di una dichiarazione non vincolante il rischio è di cadere in una concezione paternalistica, che lascia al medico una discrezionalità poco controllabile; nel caso di disposizioni vincolanti, invece, a essere mortificata è l’autonomia professionale del medico, che dovrebbe sempre essere chiamato a una chiara assunzione di responsabilità nel decidere cosa fare quando il paziente non può pronunciarsi. E dunque, spiega Da Re, meglio orientarsi su dichiarazioni non vincolanti, che debbano essere tenute in conto ma non sviliscano il ruolo del medico; o meglio ancora, per il docente di filosofia morale, non dare alcuna veste giuridica ai DAT, lasciando che tutto scaturisca dal dialogo tra medico e paziente (o chi lo rappresenta), unica fonte abbastanza equilibrata e flessibile da poter essere tradotta in scelte che debbono adattarsi a mille casi diversi.
È una soluzione di compromesso su cui sembra orientarsi anche la più recente deontologia medica: Giovanni Leoni, chirurgo e vicepresidente dell’Ordine di Venezia, ha sottolineato come nel codice approvato l’anno scorso ai medici sia prescritto di “tener conto” delle DAT, purché “espresse in forma scritta” da una persona “capace” che abbia ricevuto informazioni “di cui resta traccia documentale”. “Tener conto” non si traduce, nel codice deontologico, in un obbligo: il medico deve verificare la “congruenza logica e clinica” delle DAT con la condizione del paziente, per poi ispirare la propria condotta “al rispetto della dignità e della qualità della vita del paziente”, sempre “dandone chiara espressione nella documentazione sanitaria”; ma l’autonomia del dottore rimane intatta, dal momento che ha sempre facoltà di procedere “alle cure ritenute indispensabili e indifferibili”.
Come sciogliere, quindi il nodo che unisce volontà del paziente e autonomia del medico? Per Da Re è un dilemma che richiede una difficile conciliazione, e che echeggia nella carta costituzionale, visto che all’articolo 32 la salute è definita “diritto dell’individuo e interesse della collettività”: binomio che precluderebbe, secondo il filosofo, una interpretazione delle DAT che assegni al paziente il completo arbitrio sulle proprie condizioni; dovendo invece coordinare tutela del singolo e principio di solidarietà. Un’opinione che potrebbe, forse, trovare un contraltare proprio continuando a leggere l’articolo 32, che vieta qualunque disposizione contraria al rispetto della persona umana.
Certo, i problemi connessi alla validità delle dichiarazioni anticipate sono molti: il lasso di tempo, spesso amplissimo, che separa le dichiarazioni dal momento della loro applicazione (ma nessuno impedirebbe al paziente di rinnovare periodicamente le proprie DAT); il consenso del paziente, che in extremis non ha la possibilità di revocarlo perché in condizione di incapacità (ma le DAT servono proprio a esprimere una volontà quando non si è in grado di farlo: e l’astratta possibilità di ripensamento di decisioni prese anni prima e confermate fino alla fine è forse il male minore, rispetto al rischio di essere sottoposti a trattamenti considerati inaccettabili); la possibile vaghezza nei contenuti di alcune DAT (ma questo si potrebbe prevenire prevedendo l’assistenza di un giurista nella redazione dell’atto).
Nel codice deontologico del 2014 non si parla di eutanasia, probabilmente per la difficoltà di definirne i confini: al medico è comunque vietato “effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte” del paziente, come pure è proibito “intraprendere” e “insistere” in procedure diagnostiche e interventi terapeutici “clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati”, dove la “sproporzione” deriva dal non poter “fondatamente attendersi” benefici per la salute o (precisazione fondamentale) per la qualità della vita. La norma chiarisce che questa astensione da trattamenti “inappropriati e non proporzionati” non può essere considerata, in nessun caso, come pratica di eutanasia. Il codice del 2014, dunque, sceglie di definire la liceità del comportamento del medico avendo riguardo alla sua appropriatezza e alle sua finalità: non è condannabile, spiega Leoni, il dottore che somministra una dose di morfina letale al paziente terminale, se questo è sottoposto a sofferenze intollerabili e l’intenzione del medico è solo quella di alleviarne il dolore, pur essendo consapevole che questo comporta un rischio.
Si tratta, come si vede, di confini delicatissimi e opinabili: e una possibile obiezione del giurista (è il senso dell’intervento della civilista Manuela Mantovani) è che rinunciare a legiferare su materie tanto complesse, per quanto richieda scelte dolorose e non unanimi, significa rassegnarsi a rimanere in quell’incertezza che alimenta, comunque, disparità e divisioni. Anche in questo campo, come in molti in materia di bioetica e diritti della persona, il nostro Parlamento ha deciso di non decidere: come ha ricordato Daniele Rodriguez, ordinario di medicina legale, risale al 2001 la legge 145, che ratifica la Convenzione di Oviedo del 1997 sui diritti dell’uomo e la biomedicina. Ma è una ratifica interrotta, perché i decreti applicativi necessari non sono mai stati approvati. Come uscire dal limbo? Come spesso accade in un Paese in cui la società si evolve molto più in fretta del suo corpus normativo, è la magistratura ad aver trovato un escamotage. Senza fragore mediatico, da alcuni anni le sentenze dei giudici tutelari hanno individuato uno strumento efficace nella figura dell’amministratore di sostegno: un ruolo previsto dalla legge per provvedere agli interessi di un soggetto che si trovi nell’impossibilità (anche temporanea) di farlo.
Dal 2008 l’indirizzo della giurisprudenza è di attribuire agli amministratori anche il potere di decidere sui trattamenti medici cui sottoporre il tutelato, quando questo si trovasse in futuro in condizione di incapacità: la maggior parte delle pronunce, in effetti, riguarda malati a prognosi infausta o persone che debbano sottoporsi a rischiosi interventi chirurgici. Però alcuni giudici sono andati oltre, arrivando ad ammettere il conferimento di questi poteri all’amministratore anche quando il delegante sia sano, o comunque pienamente capace. Una svolta, quest’ultima, su cui la Cassazione ha espresso un primo orientamento negativo; ma che, se dovesse consolidarsi, costituirà l’ennesimo stratagemma con cui i magistrati avranno replicato a una domanda di certezza del diritto cui il legislatore non sa, o non vuole, rispondere.
Martino Periti 16.6.2015 Il B0 giornale universitario dell'ateneo di Padova