Enzo Pace: la Pasqua e il dialogo religioso
Intervista al docente di Sociologia delle religioni: "Il pane e l'agnello uniscono ebrei, cristiani e islamici"
Tre date, tre contesti, tre significati diversi, ma una comune matrice. C’è un sottile ma robusto filo rosso a collegare la festa pasquale di ebrei, cristiani e islamici, spiega Enzo Pace, docente di Sociologia delle religioni all’università di Padova. Il copyright della Pasqua è ebraico di diritto. Quando nasce storicamente?
«Già nell’Esodo, con il racconto della fuga dall’Egitto delle tribù di Israele. In questo senso, Pesach, Pasqua, rappresenta un vero e proprio mito di fondazione del popolo d’Israele che coniuga il passaggio dalla condizione di schiavi a quella di liberi. Ma nel tempo diventa una potentissima matrice di ispirazione per movimenti anche non religiosi: è Michael Walzer a parlare di un messianismo marxista che in qualche modo si ispira a questa idea».
Come celebrano la loro Pasqua gli ebrei?
«Si tratta di un rito domestico cui ogni famiglia adempie il quattordicesimo giorno del mese di Nisan, il primo del calendario ebraico secondo il computo dell’uscita dall’Egitto [tra marzo e aprile, nel nostro: ndr], secondo un ordine preciso, che tiene assieme il cibo con la lettura di passi biblici. È d’obbligo mangiare pane azzimo, a ricordo del fatto che fuggendo dall’Egitto non ci fu neppure il tempo di aspettare la lievitazione del pane, bisognò prendere quello che c’era. Un rito probabilmente mai interrotto nei secoli, neppure nella diaspora, e che specie nei confronti dei bambini rappresenta la modalità con cui si saldano le generazioni».
Assieme al pane, l’agnello. Da dove nasce questa scelta?
«Direttamente dal libro dell’Esodo, capitolo 12, versetti 12-14. Alla vigilia della fuga dall’Egitto, Dio invita gli ebrei a sacrificare un agnello e a tracciare col suo sangue una croce sulle loro case, per poterle identificare, visto che Egli stesso passerà a sterminare “ogni primogenito nel paese d’Egitto, uomo o animale”, per punire chi ha fatto soffrire il popolo d’Israele. Così il sacrificio dell’agnello si lega alla festa della Pesach, e l’agnello diventa il simbolo assieme di morte e vita: è la vittima che rende possibile la liberazione».
E questo in qualche modo ci porta alla Pasqua cristiana: con quali connotati?
«Il fascino della figura di Gesù si inserisce perfettamente nella tradizione ebraica. Alla vigilia della festa della Pesach chiede ai suoi di trovargli una casa dove celebrarla. Ed è durante quella cena che annuncia: io sono la vittima sacrificale. I presenti erano ebrei come lui, e Gesù compie gesti per loro familiari, incluso quello di spezzare il pane, aggiungendo la formula: fate questo in memoria di me».
Una memoria che però nei secoli dividerà le varie confessioni cristiane.
«Diventerà in effetti fonte di divisioni interne al cristianesimo, specie con la riforma protestante. Si è discusso a lungo, ad esempio, se fare memoria di quella cena sia semplicemente ricordare il gesto, o riprodurlo perfettamente facendone il corpo e il sangue di Cristo. Ma ci sono state varianti marginali, e che tuttavia hanno attraversato per secoli il confronto. Ad esempio, si è a lungo polemizzato sul fatto se il pane impiegato nella rievocazione della cena dovesse essere azzimo o no: la Chiesa di Roma utilizzava il primo, quella d’Oriente il pane lievitato. Alla fine, nel concilio di Firenze del 1439, dopo quasi cinquecento anni di dibattito, si è giunti a una soluzione salomonica: entrambe le varianti dovevano considerarsi legittime».
Anche nella Pasqua cristiana compare l’agnello: con che significato?
«Gesù è l’agnus Dei che segna il passaggio dalla morte alla resurrezione. È stato l’antropologo René Girard a mettere in evidenza l’ambivalenza del sacrificio nella religione: con esso uccidi, ma al tempo stesso dai la vita. Nel cristianesimo c’è peraltro una rottura notevole: la vittima è Cristo stesso, ed è come se il suo personale sacrificio abolisse tutti i sacrifici possibili. Nella tradizione ebraica, il sangue è simbolo del soffio vitale dell’animale, che serve a liberarti. Nel cristianesimo, è Dio che fa violenza su di sé. In entrambi i casi c’è comunque anche il senso dell’economia del dono: un patto che si rinnova, Dio che si dona come momento di salvezza».
Arriviamo all’Islam. Qual è l’anello di congiunzione?
«Le tracce dell’ebraismo dentro l’Islam sono potentissime. Bisogna andare alla figura di Abramo, che per Muhammad è davvero choccante, fin dalla costruzione della Ka’bah, che diventerà la meta del pellegrinaggio alla Mecca. Nel mondo islamico l’equivalente della Pasqua è al-adha, o al-qurban, che è la festa del sacrificio, e che tradizionalmente si tiene il decimo giorno durante il mese del pellegrinaggio, l’ultimo nel calendario musulmano. Anche qui è previsto il sacrificio di un animale, un ovino, che va poi diviso in tre parti: una da consumare subito in famiglia, una da conservare, una da mettere a disposizione dei poveri».
Anche questo in ricordo di un momento forte?
«Si vuole appunto far memoria del gesto di Abramo, richiamato nel Corano, quando è disposto a sacrificare il figlio Ismaele [l’Isacco della tradizione ebraica: ndr] come richiestogli da Dio, e viene fermato dall’angelo. Anche questo rappresenta un atto gratuito, un dono. È interessante notare che questa festa del sacrificio ha conosciuto una ripresa a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso tra i musulmani che vivono in Europa, assieme al Ramadan».
Possiamo trovare una traccia attuale di questo filo sottile fra tre religioni nella vicenda dell’uomo di oggi, protagonista di un esodo contemporaneo alla rovescia, uscendo cioè dalla propria terra, siano essi profughi o semplicemente uomini comuni che devono abbandonare la vecchia casa degli schemi e delle abitudini?
«In effetti oggi viviamo immersi in una sorta di schiavitù del quotidiano. E se c’è un effetto sottile della secolarizzazione, è quello che non siamo ormai più in grado di connettere i gesti della vita quotidiana con simboli più trascendenti. In tal senso, la riapertura delle grandi memorie che le religioni conservano, potrebbe rappresentare un modo per educare le nuove generazioni non tanto ad avere fede, quanto a porre attenzione a simboli, codici, significati che sono ancora presenti, e a vedere come questi simboli non siano esclusivi di una religione. E questo potrebbe diventare una spinta al dialogo e alla comprensione reciproci, in una stagione di tanto aspra conflittualità».
04 aprile 2015 Francesco Jori Mattino