Il (vero) senso di quel digiuno
La guerra, la Chiesa, la società
In una lettera pubblicata su questo giornale alcuni giorni fa, il vescovo di Vicenza; Beniamino Pizziol, riprendendo l’appello di Papa Francesco, auspicava che «la forza del dialogo» fosse più forte «della logica delle armi». Pur se condensato in poche righe, il ragionamento col quale il prelato vicentino si associava all’iniziativa lanciata dal Pontefice si segnala soprattutto per un punto di grande importanza, vale a dire il legame che unisce la scelta del digiuno all’impegno per la pace. Di per sé, fra questi due termini non sembra esservi alcuna relazione necessaria. Al contrario, si può avere l’impressione che mentre l’obbiettivo di scongiurare la guerra ci ponga di fronte allo scenario davvero inquietante di un possibile terzo conflitto mondiale, il ricorso al digiuno evochi una pratica in larga misura caduta in disuso, e comunque assai poco efficace per la difesa della pace. Non è così. Al contrario, è possibile congetturare con molta verosimiglianza che il Papa e il vescovo abbiano voluto ricollegarsi all’analoga iniziativa assunta, esattamente dieci anni fa, da Giovanni Paolo II alla vigilia della seconda guerra del Golfo.
Alla base di queste prese di posizione vi è infatti un presupposto, che soltanto pochi hanno intuito e adeguatamente valorizzato, consistente nel collegare il rischio incombente della guerra alla situazione di drammatico squilibrio nella distribuzione delle risorse che caratterizza il pianeta. Se l’Occidente vuole la pace, deve digiunare. Questo il significato profondo di un appello che procede ben al di là di una pratica espiatoria convenzionale e ampiamente disattesa, quale è quella del digiuno, e che è altrettanto irriducibile all’espressione di una inoffensiva testimonianza, priva di ogni reale capacità di influenzare la politica mondiale. Le parole dei religiosi prefigurano una soluzione esattamente opposta a quella immaginata dall’amministrazione americana, in ciò sempre coerente a se stessa, da Bush a Obama. Non la permanenza dei privilegi, ma il loro netto superamento. Non l’assunzione del tenore di vita della quota di popolazione più fortunata come variabile indipendente, ma al contrario un intervento che persegua il riequilibrio proprio attraverso il mutamento di quel tenore di vita. Non la guerra infinita come strumento per la perpetuazione di uno status dei rapporti fra paesi progrediti e paesi poveri giudicato immodificabile, ma la pace come presupposto e insieme obbiettivo di una modificazione radicale di quei rapporti, in direzione dell’equità e della solidarietà. Se l’Occidente vuole la pace, deve digiunare. Al di fuori di questa prospettiva, la quale implica non un gratuito, ma infine sterile, atteggiamento penitenziale, ma un cambiamento profondo di stili individuali e collettivi di vita, di reperimento e sfruttamento delle risorse, di orientamento delle politiche economiche, di relazioni fra popoli e paesi; al di fuori di questo cammino difficile e perfino penoso, nel quale tuttavia almeno si intravede una giustizia meno iniqua di quella attuale, e una stabilità meno effimera, rispetto a quella oggi concessa, resta soltanto lo scenario di una giustizia declinata nei termini di un’operazione militare, come quelle condotte in Iraq e Afghanistan Indubbiamente, non è né facile né immediata la «translitterazione » nel linguaggio politico dell’appello papale.
Non può trattarsi della caricaturale proposta del volontario impoverimento dell’Occidente o della rinuncia a promuovere lo sviluppo. D’altra parte, non è neppure concepibile riuscire a contrastare efficacemente l’opzione messa in campo dagli Stati Uniti limitandosi a ribadire il rifiuto della guerra. Alla «libertà duratura» occorre saper contrapporre un disegno almeno altrettanto organico, nel quale la pace non sia una vuota parola d’ordine, ma sia piuttosto una formula che riassume una forte capacità di iniziativa, sul piano delle politiche economiche, nel quadro di una complessiva visione dello sviluppo dell’intero pianeta. Questo il digiuno necessario, se davvero l’Occidente vuole la pace. Una riorganizzazione complessiva delle modalità di produzione e sfruttamento delle risorse, su scala mondiale, in vista di una graduale ma concreta riduzione degli squilibri. Solo in questi termini, si potrà evitare di lasciare campo libero al dilagare della guerra infinita, facendo sì che la pace non sia «soltanto un nome», ma diventi, essa, «la continuazione della politica con altri mezzi».
Umberto Curi
10 settembre 2013 Corriere