Regole di guerra e crimini di guerra
Inviato: lun apr 11, 2022 7:41 pm
Regole di guerra e crimini di guerra
di Andrea Gaiardoni BO live
Università di Padova
La guerra ha le sue regole precise. Sono scritte nei trattati, nelle convenzioni ratificate nel corso degli anni dagli Stati, nei paragrafi del Diritto Internazionale Umanitario, che comprende tutte le disposizioni che si applicano in caso di conflitto armato e che disciplina la “conduzione delle ostilità”. Dove si legge, ad esempio: “Persone e beni civili non possono essere attaccati in nessuna circostanza. Le parti in conflitto devono sempre distinguere gli obiettivi militari dai civili o dai beni di carattere civile”. Oppure: “Le armi che colpiscono in maniera indifferenziata e provocano sofferenze inutili o gravi danni ambientali sono vietate. Rientrano tra queste le armi biologiche e chimiche, le mine antiuomo, le armi incendiarie e le munizioni a grappolo”. Infrangere queste regole non si può, non si potrebbe: al punto che le più gravi violazioni del Diritto Internazionale Umanitario sono, di regola, considerate crimini di guerra. E come tali, perseguite. Oggi sono in molti a sostenere che la Russia abbia oltrepassato e di molto quel perimetro, nell’invadere unilateralmente l’Ucraina. In molti a ritenere che il deliberato attacco sferrato dalle forze armate russe contro scuole, ospedali, condomini, dunque tutti obiettivi “civili” senza alcuna connotazione militare, rientri a pieno titolo nel novero dei crimini di guerra. Come anche l’aver sparato ai civili in fuga, o l’aver disseminato di mine i corridoi umanitari che avrebbero dovuto consentire alla popolazione di lasciare il paese: si sono rivelati una trappola. L’obiettivo dei soldati russi, evidentemente, era eliminare il maggior numero di ucraini, a prescindere dalla divisa. Perché non si spiega altrimenti la decisione di bombardare, ad esempio, almeno 26 ospedali ucraini (la stima è dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). Tutte sedi di miliziani ucraini? Sul punto aveva fatto molto discutere il bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol. All’ondata di sdegno internazionale, il ministro degli esteri Lavrov aveva replicato sprezzante: «Proteste patetiche». Il rappresentante russo alle Nazioni Unite aveva poi sostenuto che la struttura era in realtà stata requisita dai nazionalisti ucraini del battaglione Azov, e che del fatto l’Onu stessa fosse a conoscenza. A riprova aveva mostrato un documento nel quale si fa riferimento a un “natal hospital 1”. Ma quello poi colpito, nella zona ovest della città, era il “natal hospital 3” (e tre in tutto sono gli ospedali pediatrici a Mariupol). Ma allora, dov’è la verità? Di bersaglio sbagliato si tratta? L’ordine di bombardare proprio quell’edificio qualcuno deve averlo pur dato. Oppure un esempio della disinformazione che sta assumendo un ruolo sempre più centrale in questo conflitto? E da parte di chi?
Le bombe sul teatro e il rimpallo di responsabilità
Poi, mercoledì scorso, è arrivato il bombardamento del teatro di Mariupol (e della piscina al coperto Neptun). Alle due estremità dell’edificio, a caratteri cubitali, era stata disegnata la scritta (in cirillico) “bambini”, proprio a indicare che quello era un rifugio per i più indifesi dei civili: non è bastato a evitare l’attacco. Impossibile al momento determinare il numero esatto delle vittime: all’interno c’erano centinaia di persone, 130 sarebbero i sopravvissuti. Un attacco che resta comunque senza un plausibile perché. Il presidente ucraino Zelensky ha chiesto che il mondo intero riconosca la Russia come uno stato terrorista. Anche il presidente americano Joe Biden, almeno verbalmente, ha abbandonato la prudenza, definendo Putin “un criminale di guerra”, e successivamente “un dittatore omicida”. La Russia, dal canto suo, attraverso l’agenzia Tass, ha negato ogni responsabilità sull’episodio, accusando i militanti del battaglione Azov di aver compiuto “un’altra sanguinosa provocazione facendo saltare in aria l’edificio mascherato da teatro”. Mascherato perché, a loro avviso, il teatro non era occupato dai civili ma sede dei nazionalisti ucraini. Una ricostruzione che stride con le centinaia di cadaveri rimasti sepolti sotto le macerie. Un rimpallo di responsabilità che non cancella l’orrore per il bombardamento di un sito adibito a rifugio di civili. Questo sì, senza alcun dubbio, un crimine di guerra, come stabilisce l’articolo 147 della quarta Convenzione di Ginevra: “Le uccisioni intenzionali”, “l’intenzionale causa di grandi sofferenze” e “l’estesa distruzione” di proprietà sono tutti crimini di guerra. Qualcuno alla fine, quando le tante nebbie si saranno diradate, sarà chiamato a risponderne.
Resta comunque difficilissimo avere certezze sui numeri reali delle guerra (che ha già costretto alla fuga oltre 3 milioni di ucraini) vittime civili sul campo, dei feriti, per non parlare di quel che accade davvero nelle strade, nelle case, nelle carceri delle città sotto assedio. Secondo l’ultimo dato ufficiale, riferito al 16 marzo, dell’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR) le vittime civili accertate in Ucraina dall’inizio del conflitto sono 726 (42 bambini e ragazzi), mentre i feriti 1174. Ma è la stessa agenzia a definire incompleta la stima: «L’OHCHR ritiene che le cifre effettive siano considerevolmente più elevate, poiché la ricezione di informazioni da alcune località in cui sono in corso intense ostilità è stata ritardata e molti rapporti sono ancora in attesa di conferma. Ciò riguarda, ad esempio, Izium (regione di Kharkiv), Mariupol e Volnovakha (regione di Donetsk), dove ci sono segnalazioni di centinaia di vittime civili». Probabilmente il numero esatto è di alcune migliaia. La portavoce dell’OHCHR, Liz Throssell, ha dichiarato inoltre, nei giorni scorsi, di aver ricevuto rapporti credibili sull’utilizzo di bombe a grappolo (proibite dalla Convenzione di Oslo del 2008) da parte dell’esercito russo in aree popolate dell'Ucraina. La Convenzione non è stata mai firmata da Russia, Cina, Ucraina e Stati Uniti (stati che spiccano per assenza anche da un’altra Convenzione, quella di Ottawa, che mette al bando la produzione di mine antiuomo). Ma secondo l’OHCHR, l’uso di tali munizioni è incompatibile con i principi del diritto internazionale umanitario che regolano la condotta delle ostilità. E perciò l’utilizzo di munizioni a grappolo può essere comunque considerato un crimine di guerra.
L’appello di 41 nazioni alla Corte Penale Internazionale
È per tutto ciò che 41 stati (gli ultimi a presentare richiesta sono stati il Giappone e la Macedonia del Nord) hanno già chiesto alla Corte Penale Internazionale (CPI, la sede è a L’Aia, capitale dei Paesi Bassi) di indagare formalmente sui crimini commessi all'interno del territorio dell’Ucraina, perché vi sono “ragionevoli basi” per ritenere che le forze russe stiano commettendo crimini di guerra. «Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro la popolazione civile, questo è un crimine», ha scandito il procuratore capo della CPI, l’avvocato inglese Karim Khan. «Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro oggetti civili, questo è un crimine. Non c’è giustificazione legale, nessuna scusa per attacchi indiscriminati o che hanno effetti sproporzionati sulla popolazione civile». E l'elenco dei possibili addebiti, raccolti nel caos delle testimonianze dei sopravvissuti, cresce ogni giorno. Gli investigatori della Corte Penale Internazionale hanno già annunciato che esamineranno le accuse passate e presenti, risalendo fino al 2013, alla vigilia dell’annessione russa della Crimea (con il trattato firmato da Putin nel marzo 2014).
Quanto alle responsabilità di quanto sta accadendo da quasi un mese in Ucraina: il 15 marzo scorso (alla vigilia della strage del teatro di Mariupol), il Senato americano aveva approvato all’unanimità una risoluzione che condannava il presidente russo Vladimir Putin e lo additava come “criminale di guerra”. Una risoluzione presentata dal senatore repubblicano Lindsey Graham. «Tutti noi in quest’Aula ci siamo uniti, Democratici e Repubblicani, per dire che Vladimir Putin non può sottrarsi alla responsabilità per le atrocità commesse contro il popolo ucraino», aveva dichiarato il leader della maggioranza democratica al Senato, Chuck Schumer. Il premier britannico Boris Johnson aveva preso già da diverse settimane una posizione netta: «Bombardare civili innocenti si qualifica già pienamente come un crimine di guerra». Mentre da Parigi il presidente Emmanuel Macron aveva argomentato: «Vladimir Putin ha deciso di far tornare la guerra in Europa. L’ha scelto da solo, in modo deliberato. Questa guerra non è un conflitto tra la Nato e l’Occidente da una parte e la Russia dall’altra. Non ci sono truppe o basi della NATO in Ucraina. Sono solo bugie. La Russia non viene aggredita, è l’aggressore».
Difficilmente Putin potrà essere incriminato
La Corte Penale Internazionale (CPI) è l’unico organismo che potrebbe, in teoria, incriminare il presidente Putin, qualora riuscisse a raccogliere sufficienti prove sulle sue responsabilità per gli atti disumani cui stiamo assistendo di giorno in giorno in Ucraina. Ma è una strada disseminata di ostacoli. Anzitutto né la Russia né l’Ucraina (che però ne ha accettato la giurisdizione dopo l’invasione della Crimea, nel 2014) sono membri della CPI. Che potrebbe anche emettere un mandato di arresto per portare l'imputato in giudizio (il processo non può essere celebrato in contumacia). Ma non essendo la Russia un membro della Corte (per inciso, nemmeno gli Stati Uniti riconoscono l’autorità della CPI), è improbabile che Putin si presenterebbe a un simile processo, a meno che non fosse “consegnato” dalle forze russe o catturato fuori dal suo Paese, eventualità plausibile soltanto qualora la Russia uscisse sconfitta dal conflitto in corso. Inoltre, i crimini di guerra sono assai difficili da dimostrare in quanto bisogna fornire le prove di un legame diretto tra l’individuo accusato e l’uccisione di civili. Non bastano le immagini o i video, per fare un esempio, del teatro bombardato di Mariupol: per addossarne a Putin la responsabilità bisognerebbe trovare un documento scritto, una registrazione, una prova inconfutabile che sia stato lui a impartire l’ordine. «Il posto più importante dove guardare è nelle tasche dei soldati», ha spiegato al Time Bill Wiley, fondatore e direttore esecutivo della Commission for International Justice and Accountability (CIJA), un'organizzazione non governativa, formata da investigatori, analisti e avvocati, specializzata nella raccolta di prove nei conflitti. Secondo Wiley, bisogna andare alla ricerca dei “detriti tascabili” in caso di cattura di un soldato nemico: vale a dire cellulari e computer, istruzioni scritte dai comandanti e mappe del campo di battaglia. Ed è indispensabile farlo subito, durante il conflitto, non alla fine.
Senza quelle prove, Putin potrebbe al massimo essere processato per il crimine di “aggressione”, in violazione delle norme stabilite dallo Statuto delle Nazioni Unite. Fred Kaplan, giornalista e scrittore americano, che dell’argomento si è occupato sulla rivista americana Slate, offre un ulteriore spunto di riflessione, riportando una dichiarazione di Olivia Swaak-Goldman, ex capo della Task Force per le relazioni internazionali presso l’ufficio del procuratore capo della Corte Penale Internazionale: «Qualora la CPI dovesse soltanto incriminare Putin, sarebbe comunque un messaggio dirompente. Perché se fosse ancora presidente (al termine del conflitto) non potrebbe più rappresentare la Russia nei negoziati internazionali, il che potrebbe portare a una sua ulteriore emarginazione anche a livello nazionale». Il tema della futura rappresentanza diplomatica della Russia, indubitabilmente colpevole di aver stracciato i “sacri testi” della diplomazia, si porrà più avanti, a guerra in qualche modo finita. Ma sarà un tema di enorme complessità. La decisione della Russia di ritirarsi dal Consiglio d’Europa (in seguito alla decisione di sospendere il diritto di rappresentanza della Federazione Russa all’interno degli organi, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina) ratificata mercoledì scorso dopo 26 anni di appartenenza, è un passaggio che senza dubbio segnerà il futuro dei rapporti diplomatici. E che sottrae, almeno per ora, la Federazione Russa a qualsiasi possibile “controllo” sul rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto, della democrazia. Con la leadership del Cremlino (Putin o chi per lui) che avrà maggiore libertà nell’imporre politiche autoritarie e repressive.
di Andrea Gaiardoni BO live
Università di Padova
La guerra ha le sue regole precise. Sono scritte nei trattati, nelle convenzioni ratificate nel corso degli anni dagli Stati, nei paragrafi del Diritto Internazionale Umanitario, che comprende tutte le disposizioni che si applicano in caso di conflitto armato e che disciplina la “conduzione delle ostilità”. Dove si legge, ad esempio: “Persone e beni civili non possono essere attaccati in nessuna circostanza. Le parti in conflitto devono sempre distinguere gli obiettivi militari dai civili o dai beni di carattere civile”. Oppure: “Le armi che colpiscono in maniera indifferenziata e provocano sofferenze inutili o gravi danni ambientali sono vietate. Rientrano tra queste le armi biologiche e chimiche, le mine antiuomo, le armi incendiarie e le munizioni a grappolo”. Infrangere queste regole non si può, non si potrebbe: al punto che le più gravi violazioni del Diritto Internazionale Umanitario sono, di regola, considerate crimini di guerra. E come tali, perseguite. Oggi sono in molti a sostenere che la Russia abbia oltrepassato e di molto quel perimetro, nell’invadere unilateralmente l’Ucraina. In molti a ritenere che il deliberato attacco sferrato dalle forze armate russe contro scuole, ospedali, condomini, dunque tutti obiettivi “civili” senza alcuna connotazione militare, rientri a pieno titolo nel novero dei crimini di guerra. Come anche l’aver sparato ai civili in fuga, o l’aver disseminato di mine i corridoi umanitari che avrebbero dovuto consentire alla popolazione di lasciare il paese: si sono rivelati una trappola. L’obiettivo dei soldati russi, evidentemente, era eliminare il maggior numero di ucraini, a prescindere dalla divisa. Perché non si spiega altrimenti la decisione di bombardare, ad esempio, almeno 26 ospedali ucraini (la stima è dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). Tutte sedi di miliziani ucraini? Sul punto aveva fatto molto discutere il bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol. All’ondata di sdegno internazionale, il ministro degli esteri Lavrov aveva replicato sprezzante: «Proteste patetiche». Il rappresentante russo alle Nazioni Unite aveva poi sostenuto che la struttura era in realtà stata requisita dai nazionalisti ucraini del battaglione Azov, e che del fatto l’Onu stessa fosse a conoscenza. A riprova aveva mostrato un documento nel quale si fa riferimento a un “natal hospital 1”. Ma quello poi colpito, nella zona ovest della città, era il “natal hospital 3” (e tre in tutto sono gli ospedali pediatrici a Mariupol). Ma allora, dov’è la verità? Di bersaglio sbagliato si tratta? L’ordine di bombardare proprio quell’edificio qualcuno deve averlo pur dato. Oppure un esempio della disinformazione che sta assumendo un ruolo sempre più centrale in questo conflitto? E da parte di chi?
Le bombe sul teatro e il rimpallo di responsabilità
Poi, mercoledì scorso, è arrivato il bombardamento del teatro di Mariupol (e della piscina al coperto Neptun). Alle due estremità dell’edificio, a caratteri cubitali, era stata disegnata la scritta (in cirillico) “bambini”, proprio a indicare che quello era un rifugio per i più indifesi dei civili: non è bastato a evitare l’attacco. Impossibile al momento determinare il numero esatto delle vittime: all’interno c’erano centinaia di persone, 130 sarebbero i sopravvissuti. Un attacco che resta comunque senza un plausibile perché. Il presidente ucraino Zelensky ha chiesto che il mondo intero riconosca la Russia come uno stato terrorista. Anche il presidente americano Joe Biden, almeno verbalmente, ha abbandonato la prudenza, definendo Putin “un criminale di guerra”, e successivamente “un dittatore omicida”. La Russia, dal canto suo, attraverso l’agenzia Tass, ha negato ogni responsabilità sull’episodio, accusando i militanti del battaglione Azov di aver compiuto “un’altra sanguinosa provocazione facendo saltare in aria l’edificio mascherato da teatro”. Mascherato perché, a loro avviso, il teatro non era occupato dai civili ma sede dei nazionalisti ucraini. Una ricostruzione che stride con le centinaia di cadaveri rimasti sepolti sotto le macerie. Un rimpallo di responsabilità che non cancella l’orrore per il bombardamento di un sito adibito a rifugio di civili. Questo sì, senza alcun dubbio, un crimine di guerra, come stabilisce l’articolo 147 della quarta Convenzione di Ginevra: “Le uccisioni intenzionali”, “l’intenzionale causa di grandi sofferenze” e “l’estesa distruzione” di proprietà sono tutti crimini di guerra. Qualcuno alla fine, quando le tante nebbie si saranno diradate, sarà chiamato a risponderne.
Resta comunque difficilissimo avere certezze sui numeri reali delle guerra (che ha già costretto alla fuga oltre 3 milioni di ucraini) vittime civili sul campo, dei feriti, per non parlare di quel che accade davvero nelle strade, nelle case, nelle carceri delle città sotto assedio. Secondo l’ultimo dato ufficiale, riferito al 16 marzo, dell’Ufficio delle Nazioni Unite dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR) le vittime civili accertate in Ucraina dall’inizio del conflitto sono 726 (42 bambini e ragazzi), mentre i feriti 1174. Ma è la stessa agenzia a definire incompleta la stima: «L’OHCHR ritiene che le cifre effettive siano considerevolmente più elevate, poiché la ricezione di informazioni da alcune località in cui sono in corso intense ostilità è stata ritardata e molti rapporti sono ancora in attesa di conferma. Ciò riguarda, ad esempio, Izium (regione di Kharkiv), Mariupol e Volnovakha (regione di Donetsk), dove ci sono segnalazioni di centinaia di vittime civili». Probabilmente il numero esatto è di alcune migliaia. La portavoce dell’OHCHR, Liz Throssell, ha dichiarato inoltre, nei giorni scorsi, di aver ricevuto rapporti credibili sull’utilizzo di bombe a grappolo (proibite dalla Convenzione di Oslo del 2008) da parte dell’esercito russo in aree popolate dell'Ucraina. La Convenzione non è stata mai firmata da Russia, Cina, Ucraina e Stati Uniti (stati che spiccano per assenza anche da un’altra Convenzione, quella di Ottawa, che mette al bando la produzione di mine antiuomo). Ma secondo l’OHCHR, l’uso di tali munizioni è incompatibile con i principi del diritto internazionale umanitario che regolano la condotta delle ostilità. E perciò l’utilizzo di munizioni a grappolo può essere comunque considerato un crimine di guerra.
L’appello di 41 nazioni alla Corte Penale Internazionale
È per tutto ciò che 41 stati (gli ultimi a presentare richiesta sono stati il Giappone e la Macedonia del Nord) hanno già chiesto alla Corte Penale Internazionale (CPI, la sede è a L’Aia, capitale dei Paesi Bassi) di indagare formalmente sui crimini commessi all'interno del territorio dell’Ucraina, perché vi sono “ragionevoli basi” per ritenere che le forze russe stiano commettendo crimini di guerra. «Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro la popolazione civile, questo è un crimine», ha scandito il procuratore capo della CPI, l’avvocato inglese Karim Khan. «Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro oggetti civili, questo è un crimine. Non c’è giustificazione legale, nessuna scusa per attacchi indiscriminati o che hanno effetti sproporzionati sulla popolazione civile». E l'elenco dei possibili addebiti, raccolti nel caos delle testimonianze dei sopravvissuti, cresce ogni giorno. Gli investigatori della Corte Penale Internazionale hanno già annunciato che esamineranno le accuse passate e presenti, risalendo fino al 2013, alla vigilia dell’annessione russa della Crimea (con il trattato firmato da Putin nel marzo 2014).
Quanto alle responsabilità di quanto sta accadendo da quasi un mese in Ucraina: il 15 marzo scorso (alla vigilia della strage del teatro di Mariupol), il Senato americano aveva approvato all’unanimità una risoluzione che condannava il presidente russo Vladimir Putin e lo additava come “criminale di guerra”. Una risoluzione presentata dal senatore repubblicano Lindsey Graham. «Tutti noi in quest’Aula ci siamo uniti, Democratici e Repubblicani, per dire che Vladimir Putin non può sottrarsi alla responsabilità per le atrocità commesse contro il popolo ucraino», aveva dichiarato il leader della maggioranza democratica al Senato, Chuck Schumer. Il premier britannico Boris Johnson aveva preso già da diverse settimane una posizione netta: «Bombardare civili innocenti si qualifica già pienamente come un crimine di guerra». Mentre da Parigi il presidente Emmanuel Macron aveva argomentato: «Vladimir Putin ha deciso di far tornare la guerra in Europa. L’ha scelto da solo, in modo deliberato. Questa guerra non è un conflitto tra la Nato e l’Occidente da una parte e la Russia dall’altra. Non ci sono truppe o basi della NATO in Ucraina. Sono solo bugie. La Russia non viene aggredita, è l’aggressore».
Difficilmente Putin potrà essere incriminato
La Corte Penale Internazionale (CPI) è l’unico organismo che potrebbe, in teoria, incriminare il presidente Putin, qualora riuscisse a raccogliere sufficienti prove sulle sue responsabilità per gli atti disumani cui stiamo assistendo di giorno in giorno in Ucraina. Ma è una strada disseminata di ostacoli. Anzitutto né la Russia né l’Ucraina (che però ne ha accettato la giurisdizione dopo l’invasione della Crimea, nel 2014) sono membri della CPI. Che potrebbe anche emettere un mandato di arresto per portare l'imputato in giudizio (il processo non può essere celebrato in contumacia). Ma non essendo la Russia un membro della Corte (per inciso, nemmeno gli Stati Uniti riconoscono l’autorità della CPI), è improbabile che Putin si presenterebbe a un simile processo, a meno che non fosse “consegnato” dalle forze russe o catturato fuori dal suo Paese, eventualità plausibile soltanto qualora la Russia uscisse sconfitta dal conflitto in corso. Inoltre, i crimini di guerra sono assai difficili da dimostrare in quanto bisogna fornire le prove di un legame diretto tra l’individuo accusato e l’uccisione di civili. Non bastano le immagini o i video, per fare un esempio, del teatro bombardato di Mariupol: per addossarne a Putin la responsabilità bisognerebbe trovare un documento scritto, una registrazione, una prova inconfutabile che sia stato lui a impartire l’ordine. «Il posto più importante dove guardare è nelle tasche dei soldati», ha spiegato al Time Bill Wiley, fondatore e direttore esecutivo della Commission for International Justice and Accountability (CIJA), un'organizzazione non governativa, formata da investigatori, analisti e avvocati, specializzata nella raccolta di prove nei conflitti. Secondo Wiley, bisogna andare alla ricerca dei “detriti tascabili” in caso di cattura di un soldato nemico: vale a dire cellulari e computer, istruzioni scritte dai comandanti e mappe del campo di battaglia. Ed è indispensabile farlo subito, durante il conflitto, non alla fine.
Senza quelle prove, Putin potrebbe al massimo essere processato per il crimine di “aggressione”, in violazione delle norme stabilite dallo Statuto delle Nazioni Unite. Fred Kaplan, giornalista e scrittore americano, che dell’argomento si è occupato sulla rivista americana Slate, offre un ulteriore spunto di riflessione, riportando una dichiarazione di Olivia Swaak-Goldman, ex capo della Task Force per le relazioni internazionali presso l’ufficio del procuratore capo della Corte Penale Internazionale: «Qualora la CPI dovesse soltanto incriminare Putin, sarebbe comunque un messaggio dirompente. Perché se fosse ancora presidente (al termine del conflitto) non potrebbe più rappresentare la Russia nei negoziati internazionali, il che potrebbe portare a una sua ulteriore emarginazione anche a livello nazionale». Il tema della futura rappresentanza diplomatica della Russia, indubitabilmente colpevole di aver stracciato i “sacri testi” della diplomazia, si porrà più avanti, a guerra in qualche modo finita. Ma sarà un tema di enorme complessità. La decisione della Russia di ritirarsi dal Consiglio d’Europa (in seguito alla decisione di sospendere il diritto di rappresentanza della Federazione Russa all’interno degli organi, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina) ratificata mercoledì scorso dopo 26 anni di appartenenza, è un passaggio che senza dubbio segnerà il futuro dei rapporti diplomatici. E che sottrae, almeno per ora, la Federazione Russa a qualsiasi possibile “controllo” sul rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto, della democrazia. Con la leadership del Cremlino (Putin o chi per lui) che avrà maggiore libertà nell’imporre politiche autoritarie e repressive.