Il coraggio di Felicia: una donna contro la mafia

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Il coraggio di Felicia: una donna contro la mafia

Messaggioda lidia.pege » sab lug 31, 2021 1:17 pm

Il coraggio di Felicia: una donna contro la mafia nel nome di Peppino Impastato

La rottura della tradizione familiare, la ricerca di verità sull’assassinio del figlio. La storia di una madre che ha sfidato Cosa nostra raccontata da chi le è stato vicino
di Enrico Bellavia Espresso
26 Luglio 2021

La chiamava “la signorina del Gardenale”. Condividevano una sofferenza e quel barbiturico capace di stordire fino a placare l’emicrania. Per una era l’effetto di una patologia che la lotteria del caso le aveva riservato ancora giovanissima. Per l’altra la conseguenza delle mille volte in cui aveva picchiato la testa contro il muro, disperandosi nel tormento di un figlio ucciso e vilipeso. E di una verità lenta quanto la giustizia.

Nacque così un intenso rapporto tra Mari Albanese, laurea in filosofia, insegnante, dirigente comunista e Felicia Impastato, la madre di Peppino, ucciso dalla mafia di Tano Badalamenti sulla ferrovia di Cinisi il 9 maggio del 1978. Un delitto contro la parola: urlata nei comizi, scritta sui cartelloni delle denunce itineranti, affidata all’onda libera di Radio Aut. Un delitto mascherato con la mistificazione, orchestrata da mafiosi e carabinieri a braccetto, della morte “in servizio” di un bombarolo di provincia ucciso dal suo stesso ordigno nella preparazione di un improbabile attentato.

La storia non è completa. Perché sulla china in cui affetti e impegno, memoria e sentimenti si mischiano, compare anche Angelo Sicilia, militante di sinistra, laurea in economia, robusti studi etnoantropologici e puparo per scelta e vocazione, che l’arte antica e nobile del teatro popolare la usa per il racconto dell’orrore siciliano, del lutto e della luce che i morti sanno spargere dall’oblio in cui gli assassini vorrebbero ricacciarli. Angelo è diventato un nipote acquisito di Felicia che gli ha riservato il privilegio di dormire nello stesso letto che fu di Peppino nei giorni di preparazione del Forum antimafia di Cinisi del 2002.

A distanza di molti anni, giurandoselo con gli occhi ai funerali di Felicia, morta nel 2004, il racconto di questa donna minuta quanto determinata, fiaccata nel fisico, sfiancata dalle notti insonni a rimuginare su quel figlio strappatole a 30 anni dalla vigliacca forza degli amici di Luigi, il marito, è diventato un libro: “Io Felicia”, edito da Navarra, introduzione di Luisa Impastato, la nipote che tiene viva Casa Memoria e postfazione di Vincenzo Pinello, ricercatore di linguistica all’Università di Palermo, copertina e ritratti del regista e fotografo Pippo Albanese.

Un tributo a una madre che ha ripensato la propria esistenza, facendo a pezzi l’etica di una secolare sottomissione civile e femminile, nello strazio dell’assassinio del figlio. Che si è costituita parte civile giurando a sé stessa di non darsi pace fino alla condanna del capo dei sicari che le portarono via Peppino.

C’è tutta Felicia nello splendido dialogo condensato nel cuore del libro. L’infanzia, l’amore, la ribellione, l’orgoglio di una Cinisi che poteva dirsi antimafiosa e altera, lì dove vaccari fattisi borghesi boriosi con il piombo e il portafogli gonfio di narcolire sedevano alla tavola dei potenti dopo essersi sbranati le scogliere del golfo di Castellammare, la piana, le montagne e la fierezza contadina di una Sicilia che consegnava agli espropri la terra e la dignità del lavoro, in cambio di un sogno di progresso avvelenato dalla sudditanza.

Felicia parla del suo paese e dei bivi che le è toccato in sorte di imboccare, in un’ideale prosecuzione de “La mafia in casa mia” di Anna Puglisi e Umberto Santino, uscito nel 1984 e ripubblicato nel 2018 fa da Di Girolamo, ai quali gli autori tributano un doveroso riconoscimento.

Nel fluire dei ricordi di Felicia, ovviamente, c’è Peppino e il suo ardore, la sua formazione che segna lo scarto da una traiettoria prevedibile. Lontano dal padre, mafioso e amico di Badalamenti, cognato di Cesare Manzella, il vecchio boss fatto fuori con un’auto al tritolo, nel pieno dello scontro tra i Greco e i La Barbera nel 1963. Peppino cresce con i fratelli della madre, Matteo e Fara.

Lo zio diventa il precettore di un ragazzo sveglio, studioso e pieno di interrogativi sulla famiglia e l’onore, sciolti nella convinta dedizione a un’antimafia concreta, vissuta nell’impegno, duro e combattivo, irridente e fantasioso. “Bisogna aprirgli la testa”, diceva della gente di Cinisi. E un suo compagno racconta che gliela aprì per davvero la testa, avviandolo alla frattura con un destino che spesso è scritto nel cognome.

E quando Angelo Sicilia stuzzica la memoria di Felicia parlandole dei pupi, viene fuori l’ennesimo inedito. Per gli amici, per alcuni che al teatrino dei paladini di Francia si erano appassionati, Peppino era Tutuni, stramba sicilianizzazione di Dudone, ostinato e caparbio combattente dell’epica ariostea. E anche di questo parla Felicia, guardando continuamente le foto del figlio per avverarne la magia di una laica resurrezione che si nutre di esempio e ricordo.
Lidia Pege
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