Il Manifesto di Enrico Letta nella democrazia malata

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Il Manifesto di Enrico Letta nella democrazia malata

Messaggioda lidia.pege » dom mag 30, 2021 10:23 am

Il Manifesto di Enrico Letta nella democrazia malata
di Marco Damilano Espresso
14 Marzo 2021
Il nome migliore eletto nel peggiore dei modi. La sfida che unisce il nuovo segretario al governo Draghi: superare il vuoto della politica

È il manifesto del Partito democratico, come avrebbe dovuto essere, piuttosto di come è stato in quasi quattordici anni vita, e anche in questi ultimi giorni. Un segretario che se ne va dalla carica, esprimendo vergogna, dopo aver detto che mai il partito era stato così unito e che non sente neppure il bisogno di spiegare i motivi di fronte alla sua comunità. I capi corrente in caminetto permanente per trovare un nome. Donne autorevoli come Roberta Pinotti e Anna Finocchiaro utilizzate per riempire gli inutili retroscena. Al termine dello psicodramma, il nome migliore scelto nel modo peggiore.

Aveva chiesto la fine dell'unanimità e l'inizio di una stagione di verità, Enrico Letta, gli hanno dato ragione in due: i due voti contrari (più i quattro astenuti) che hanno rotto l'imbarazzante unanimismo con cui tutti si apprestavano a incoronarlo. Molte maschere e pochi volti, come nel testo di Pirandello citato nella relazione. Nessuna candidatura alternativa e nessuna competizione interna, oltre che una discontinuità di genere, per fortuna riconosciuta dal nuovo segretario: «Il fatto che io sia qui dimostra che abbiamo un problema». Il «mix tossico di autoconservazione e di machiavellismo politico», «ottuso, egoistico, avvilente» che Letta ha indicato come il motivo per cui «le classi dirigenti italiane si sono suicidate», aveva denunciato nel suo ultimo libro “Ho imparato” (Il Mulino).

Il personaggio
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Susanna Turco 14 Marzo 2021

Oggi è stato appena più delicato. Perché la pandemia è come la caduta del muro di Berlino, nulla resterà come prima. E ogni esigenza di auto-tutelarsi uscirà sconfitta. I più rapidi a capirlo in Italia sono stati i vincitori degli anni precedenti: i partiti sovranisti e populisti, restati senza il nemico politico, l'establishment chiuso e sordo a ogni cambiamento, l'Europa che era matrigna con l'austerità e ora prova a ritornare in connessione con i suoi popoli con il Next Generation Eu. La Lega ha cambiato ruolo e copione in poche ore, entrando nel governo di Mario Draghi. Il Movimento 5 Stelle ha già cambiato pelle da tempo: un campione di trasformismo. Eppure il populismo non è una parentesi, la disgregazione sociale è l'altra faccia del governo di unità nazionale che in troppi hanno accettato come un taxi, per arrivare a destinazione. E questo forse spiega, più di tante tattiche e strategie da interno-Nazareno, perché alla fine Letta abbia accettato la folle scommessa di guidare il Pd.

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Letta è tornato in Italia «da persona libera», rinunciando a tutti gli incarichi retribuiti, perché il partito è in uno stato di eccezione. Lo è entrato negli ultimi mesi, quando il segretario Zingaretti ha accettato che la linea politica fosse data da un personaggio senza incarichi e non eletto da nessuno (a proposito di democrazia interna) come Goffredo Bettini. Lo era già nel periodo precedente all'elezione di Zingaretti, con la leadership declinante di Matteo Renzi: il partito ridotto a feudo personale, in cui terrorizzare i tiepidi, premiare i fedelissimi, eliminare gli spiriti critici, che non coincidevano con gli uomini delle correnti ufficialmente di minoranza. Lo era, forse, fin dall'inizio, quando nel 2007 il Pd di Walter Veltroni nacque non per una scelta di vittoria, ma per il panico da sconfitta dei capi dell'epoca, per la necessità di auto-conservazione delle classi dirigenti di allora che non avevano accettato il progetto dell'Ulivo di Romano Prodi, anzi, lo avevano spezzato con una violenza politica inusitata.

Ma forse lo stato di eccezione è cominciato prima. Ho rivisto in questi giorni il documentario di Nanni Moretti “La Cosa”, girato alla fine del 1989, nei giorni in cui Achille Occhetto aveva chiesto di cambiare nome e simbolo al Pci dopo la caduta del Muro. Il viaggio in Italia nelle sezioni del Pci, un dibattito caldo, appassionato, in cui gli iscritti al partito erano davvero espressione della società in cui si trovavano immersi, si conclude nei locali di Testaccio a Roma, lo stesso circolo del quartiere romano, romanista e di sinistra, da cui Letta ha deciso di partire per la sua avventura. È lì che va in scena la discussione più animata. Quando un iscritto con i baffi spiega ai compagni che la società è cambiata e che devono cambiare anche i partiti. «Dobbiamo mettere in moto il sistema politico italiano. Altrimenti nel 2023 saremo ancora qui a discuterne!»

Una profezia. Letta ha una formazione democristiana e da ragazzo militava sul fronte opposto a quegli iscritti del Pci riuniti in sezione. Porta il nome del segretario più mitizzato: Enrico. Ma la sua navigazione riparte dallo stesso punto. Perché molte cose sono state chiarite, in questi trent'anni, altre non lo saranno mai. Ma una condizione si è aggravata. Lo Stato è fragile, la democrazia è malata, ha detto Letta. L'Italia è malata, come tutto il mondo, il cambio del segretario del Pd è avvenuto in una domenica di metà marzo, alla vigilia di un'altra dolorosa chiusura per gran parte delle regioni italiane: serrande abbassate, studenti a casa, lavoratori a rischio, di nuovo come dodici mesi fa. Più di centomila morti. Ma c'è anche un'altra malattia tutta politica e tutta italiana che si è aggravata in questi anni. Si chiama mancanza di alternativa, disaffezione democratica, vuoto di rappresentanza.

Letta ha elencato i sintomi di questa malattia: governi deboli, maggioranze improvvisate, trasformismo, cambi di casacca, parlamentari scelti dall'alto. La democrazia è malata. Per questo cadono i governi e sono necessarie le supplenze dei tecnici e dell'unità nazionale, ogni crisi di governo diventa crisi di sistema con frequenza preoccupante. I populisti che volevano risolvere la questione, e che nel vuoto hanno prosperato, sono diventati i maggiori custodi di questa nuova forma di democrazia bloccata. E il partito più partito di tutti è il più travolto dalla crisi: il Pd.

Sbloccare la democrazia bloccata è stato il grande tormento dei maestri politici di Letta. I cattolici democratici Beniamino Andreatta, Leopoldo Elia, entrambi grandi amici di Sergio Mattarella. L'ossessione per l'allargamento delle basi della democrazia, per la partecipazione della società. E l'incubo per i partiti trasformati in macchine di carriere, in castelli chiusi senza un refolo di aria pulita. «Non siamo la protezione civile della politica, rischiamo di diventare il partito del potere», ha detto il nuovo segretario. Se sei costretto a governare anche se hai perso le elezioni, come è successo nel 2018, perché c'è la patria da salvare, perché altrimenti vince Salvini, perché sennò lasci il governo a Grillo, finisci per cullarti sulle poltrone ministeriali, e la costrizione diventa accomodamento. Qui Letta è sembrato ricordare, senza citarla, la lezione di Aldo Moro: per rigenerarsi la Dc deve liberarsi dall'esigenza di stare al governo a tutti i costi. A questo doveva servire la nascita di un'alternativa, un Pci non più legato al fattore K, all'Unione sovietica, un Pci forse non più comunista, in questo c'era la grande distinzione tra Moro e Berlinguer.

Il Pd doveva essere il partito dell'alternativa e del bipolarismo, il partito che colmava questo vuoto di rappresentanza. È invece diventato il pilastro e la vittima di una nuova democrazia bloccata. E al suo interno ha costruito un'altra democrazia bloccata. Dove si oscilla tra unanimità e scissioni, tra acclamazioni e cannibalismo. Dove sei sempre al governo, ma mai con i tuoi programmi, le tue idee, la tua identità. Il tuo modo di essere riformista nella società. Il tuo popolo.

Quel progetto si è chiamato Ulivo: in Italia e in Europa. Fondato sui partiti dell'Assemblea Costituente eletta 75 anni fa. Romano Prodi, citato da Letta, ricorda che era un progetto europeo e che serve non una generica politica europeista, ma un nuovo protagonismo dell'Italia in Europa. Un nuovo patto, dunque, una nuova Costituente italiana e europea.

A questo servono i territori, i giovani, lo sforzo per risalire. Il nuovo centrosinistra in competizione e non in subalternità con i 5 Stelle di Conte. «So che non vi serve un nuovo segretario, vi serve un nuovo Pd», ha concluso Letta. Ma la sfida è più grande: un partito nuovo per una democrazia più matura e uno Stato meno fragile, in un'Europa politica da ricostruire. È questa la scommessa che lega il Pd di Letta al governo di Mario Draghi, due creature politiche generate dallo stato di eccezione, guidate da due personaggi che hanno in comune la consapevolezza della crisi e la determinazione a non tirare a campare nella sua perpetuazione.

Con uno stile di leadership che è figlio del tempo del Covid. L'uomo forte modello Trump ha fallito. Così le promesse roboanti, le palingenesi, i nuovi umanesimi e i nuovi rinascimenti che finiscono in Arabia. Il leader cool, tutto comunicazione, sempre pronto a rispondere a tono. Il leader coccolato dallo star system, a caccia di celebrità, ansioso di stare in mezzo ai ricchi e ai potenti. La pandemia rilancia in ogni parte del mondo le leadership empatiche, che non si vergognano di condividere le fragilità, che hanno sofferto, che portano in faccia i segni delle ferite della vita, come Joe Biden. Il telefono che non squilla dopo la caduta, come quello di Letta nei giorni della cacciata da Palazzo Chigi. Il disincanto per i riti dell'incoronazione, per i fedelissimi delle ore liete che Leonardo Sciascia ha definito le «macabre, oscene ore liete del potere». Letta non è certo digiuno di potere, ma ha conosciuto il dramma del tradimento e della perdita. Per incontrare i volti sui territori dell'Italia, chiusi per covid ma carichi di tensioni e di possibilità di ricostruzione, e evitare le maschere oscene e macabre del potere, servono l'empatia e la mitezza. Ma attenzione alla terribile ira dei miti.
Lidia Pege
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