Droga. Quei ragazzi dimenticati da tutti. Così le comunità sostituiscono lo Stato
Viviana Daloiso Avvenire sabato 9 gennaio 2021
Vista oggi, l’Italia degli anni Settanta alle prese con eroina e vittime per il "buco", sembra un altro pianeta. Eppure occorre partire da lì per capire la strada che (non) è stata fatta
A guardarla oggi, in tempi di overdose da purple drank (il tristemente famoso mix di sciroppo alla codeina e soda le cui istruzioni per l’uso si trovano facilmente online) e spaccio delivery (in un anno il Covid ha trasferito il mercato della droga dalle piazze alle porte di casa), l’Italia degli anni Settanta sembra un altro pianeta.
Erano i giorni del buco, dei tossici che si facevano per la strada, delle famiglie perbene senza strumenti per capire cosa stesse accadendo ai propri figli. Nemmeno il tempo di realizzarla, l’emergenza dell’eroina, che subito a farla da padroni furono fastidio e vergogna: il popolo della roba, così scomodo e difficile da gestire, andava messo sotto lo zerbino. O in comunità.
Le prime, non a caso, nacquero allora: zerbini divennero presto casali rimaneggiati sulle colline delle città, ville abbandonate nelle periferie. E i pionieri, ben prima di quel Vincenzo Muccioli che storia e tribunali hanno già giudicato e che oggi è il protagonista del discusso docufilm in onda su Netflix, furono tanti sacerdoti e suore “di strada”: Picchi, Ciotti, Benzi, Mazzi, Gallo, Gelmini, madre Elvira Petrozzi. Anche loro con storie spesso contrastate e discusse, consegnate a libri e giornali.
Da quelle prime figure carismatiche, cattoliche e laiche, da quel modello rudimentale d’accoglienza costruito sull’amore per i derelitti e sul contributo dei volontari (la maggior parte ex tossici) sono passati sessant’anni.
Le comunità di recupero oggi sono un mondo profondamente cambiato – costruito su figure professionali eterogenee e metodi educativi condivisi a livello internazionale – come profondamente cambiato è quello delle dipendenze: l’eroina, pur con la sua ripresa negli ultimi anni, è un ricordo lontano, soppiantata da cocaina e nuove sostanze (ne nascono talmente tante che le autorità sanitarie non sanno più nemmeno identificarle), l’alcol è una piaga in drammatica espansione (il lockdown ha segnato un aumento del 200% dei consumi a rischio), azzardo e Internet mietono vittime a ritmo crescente, così come gli psicofarmaci. Succede a milioni di italiani ogni anno: 8 mediamente utilizzano sostanze, oltre 10 consumano alcolici in maniera smodata, altrettanti gli antidepressivi.
Numeri da brivido, secondo gli esperti destinati ad aggravarsi per effetto della pandemia. E se appena in 136mila nel 2019 – sono gli ultimi dati disponibili, contenuti nella Relazione del Dipartimento delle politiche antidroga pubblicati a novembre – hanno avviato un percorso all’interno dei Servizi pubblici dedicati (i famosi SerD), per altro mediamente sette anni dopo l’inizio della dipendenza (un dato altrettanto drammatico), quasi 30mila sono invece stati accolti dalle comunità: 908 quelle esistenti da Nord a Sud, di cui 821 (il 90%) private.
Come e perché si arriva in queste strutture? Cosa succede al loro interno? Quando e come se ne esce? Non ci sono misteri o opacità. I percorsi socio-riabilitativi viaggiano su due binari: per la maggior parte vengono gestiti proprio dai SerD, che indirizzano le persone più bisognose di aiuto alle comunità (accreditate in base a criteri stringenti) nell’ottica di un rapporto pubblico-privato che in passato ha fatto fatica a decollare, ma che oggi risulta piuttosto “rodato”. In questi casi è lo Stato a pagare la diaria degli utenti, purtroppo ancora disomogenea a livello nazionale e legata ai budget sanitari delle singole Regioni (si va dai 40 ai 100 euro al giorno a ospite).
Poi ci sono gli ingressi indipendenti, gestiti in maniera autonoma dalle comunità (e finanziati, anche, in maniera autonoma). Nelle strutture partono progetti personalizzati di durata variabile (dai 6 ai 18 mesi, in alcuni casi più lunghi), dove a una prima fase di accoglienza e di disintossicazione si affianca un percorso di ricostruzione – personale prima e di reinserimento sociale poi – gestito da figure professionali preparate: operatori sanitari, psichiatri e psicologi, educatori. Gli utenti sono separati in base alle età e alle dipendenze, oltre che alle condizioni fisiche: all’interno delle comunità – anche in questo caso siamo su un altro pianeta rispetto agli anni Ottanta – esistono strutture dedicate ai malati di Aids, ai giocatori d’azzardo, ai cocainomani, alle doppie diagnosi (cioè a chi ha problemi psichiatrici), ai minori.
E le famiglie vengono considerate alla stregua dell’utenza: con genitori, coniugi e figli partono percorsi paralleli di formazione e consulenza psicologica, anche questi gestiti da professionisti. Buone, le percentuali di successo, anche se non quantificabili a livello generale: ognuno fa i conti per sé, ogni ricetta mostra pregi e limiti, ma l’offerta di una “cura” che vada al di là del metadone, nel semi-deserto di offerte messe in campo dalle istituzioni (anche e soprattutto sul fronte della prevenzione), è già tantissimo.
Tutto codificato in un testo di legge e seguito passo passo dallo Stato? Nient’affatto, e qui veniamo alle note dolenti. Se servizi territoriali e comunità sono cambiate tentando – spesso a rischio della propria sopravvivenza – di stare al passo coi tempi, le norme sono rimaste (queste sì) le stesse dal 1990. Ad allora risale il Testo unico sulle dipendenze, la famosa legge Vassalli-Jervolino, ritoccata fra le polemiche nel corso degli anni relativamente al concetto di “modica quantità” e alle sanzioni.
Nessuna modifica, invece, sul fronte di cosa si intenda per dipendenza, su come vada gestita e curata, sul ruolo e le prerogative da assegnare a ciascuno degli attori impegnati sul campo e su come farli dialogare tra loro. Nell’ottobre del 2019 tutte le comunità (oggi tornate a dividersi nel dibattito sulla figura di Muccioli) si fecero promotrici di un appello forte, a Montecitorio, affinché il governo ricominciasse a guardare al mondo delle dipendenze con interesse, riformando regole e norme: un grido risuonato nel vuoto, come quello lanciato nei primi mesi del Covid, quando nessuno si occupò di pensare a protocolli specifici per i tossicodipendenti dentro e fuori dalle comunità (la delega alle Politiche antidroga, d’altronde, giace inerte nelle mani del premier Conte dai tempi del ministro leghista Fontana).
Dimenticate per quello che sono oggi, infangate per quello che – in alcuni casi – hanno sbagliato sessant’anni fa mentre tutti gli altri stavano a guardare, le comunità restano drammaticamente sole. Coi loro 30mila ragazzi da salvare ogni anno.
Accuse, critiche, ripensamenti, ma anche plausi: le cinque puntate della docuserie “SanPa” uscito su Netflix il 30 dicembre scorso (scritto da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli per la regia di Cosima Spender) sono tornati a dividere politica, società civile e opinione pubblica sulla figura contrastata di Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità di San Patrignano, finito sotto processo negli anni Ottanta (e alla fine assolto) per i metodi utilizzati coi tossicodipendenti. I primi a lamentare la miopia dell’operazione sono stati proprio i vertici della comunità di Coriano, nel Riminese: «Si tratta di un racconto sbilanciato, che si ferma al 1995 e che ignora la nostra storia». La comunità, per altro, avrebbe messo a disposizione una lunga lista di persone da sentire per costruire il documentario, del tutto ignorate da chi l’ha girato. Anche Letizia Moratti, da sempre sostenitrice insieme al marito Gian Marco della comunità, non è stata coinvolta nel montaggio: «Mi ha colpito vedere nel docufilm soltanto ombre. Non aver raccontato nessuna delle storie di fragilità che poi sono diventate forza e vita piena è stata un’occasione persa». Mentre il figlio di Muccioli, Andrea, ha sostenuto che «non si tratta di un documentario, ma di una fiction. Cerca l’effetto choc e falsifica la storia, ci riesce benissimo».