Strage di Nassiriya, 17 anni dopo la ferita è ancora aperta
di Giampaolo Cadalanu
Il 12 novembre del 2003 un camion imbottito di esplosivo, guidato da due suicidi di Al Qaeda, devastava la base degli italiani nella città irachena: 19 i morti
12 Novembre 2020 Repubblica
Un vecchio camion cisterna Kamaz, con 150 chili e forse più di tritolo mescolato a liquido infiammabile. E l'identità orgogliosa degli italiani in missione, propensi sempre e comunque alla mediazione e al sorriso, anche in territorio ostile, persino a costo di qualche rischio in più. A diciassette anni di distanza, i due elementi fondamentali della strage di Nassiriya sono ben chiari, sia pure con contorni sfumati di responsabilità, fra i legami opachi dei gruppi jihadisti e le dinamiche internazionali descritte nel linguaggio depurato dalla diplomazia.
La mattina del 12 novembre 2003 il camion guidato da due terroristi votati al martirio esplose sull'ingresso di base Maestrale, devastando la palazzina prima adibita a Camera di Commercio della città irachena, uccidendo 19 italiani e 9 iracheni e facendo una sessantina di feriti. Non si era ancora depositato il fumo dell'esplosione, che cominciarono le polemiche: la base nel capoluogo della provincia di Dhi Qar era troppo esposta, in pieno centro di Nassiriya e per di più in una strada dove era difficile allestire difese adeguate. Lo ammetterà persino Abu Omar al-Kurdi, l'uomo di Al Qaeda che più tardi racconterà di aver organizzato l'attacco, forse su ordine di Abu Musab al-Zarqawi: l'edificio che i militari chiamavano Animal House era stato scelto come obiettivo perché la sua difesa era quasi impossibile.
Mentre migliaia di cittadini comuni facevano ore di fila davanti all'Altare della patria per rendere omaggio alle salme, sconvolti e increduli davanti a quello che fu chiamato "l'11 settembre dell'Italia", partiva il gioco delle responsabilità. Ci furono errori strategici, come quello di voler comunque ritagliare all'Italia un profilo meno muscolare e più di mediazione, basandosi su una cultura nazionale molto diversa da quella degli alleati. I "soldati dal volto umano" scrivemmo quel giorno: ed era così, nella coscienza dei militari impegnati come nella percezione del Paese. Forse però l'Iraq appena libero dal giogo di Saddam Hussein era un contesto troppo difficile per un approccio del genere.
Gli errori strategici furono aggravati da errori politici: l'operazione Antica Babilonia doveva essere venduta all'opinione pubblica italiana come missione di pace, e dunque non poteva essere aggressiva e blindata come forse sarebbe stato necessario. Ci furono persino polemiche feroci sullo schieramento concreto nelle strade irachene: ai responsabili militari, capri espiatori perfetti, fu rimproverato di tutto, dall'errore imperdonabile di dislocare il deposito di munizioni vicino all'ingresso della base, all'imprudenza di riempire gli Hesco-bastion (l'equivalente moderno dei sacchi di sabbia, contenitori di tela sostenuti da strutture metalliche) con ghiaia e non con sabbia filtrata. In caso di esplosione, è vero, la ghiaia diventa proiettile. Ma sembra davvero troppo pretendere che in missione gli uomini del genio aspettino di avere sabbia pulita per allestire le difese del campo.
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Giampaolo Cadalanu
10 Novembre 2019
Al di là delle colpe e dei rimpalli, diciassette anni dopo restano vivi i ricordi: lo scarpone rimasto appeso sulla rete di recinzione devastata, le facce smarrite dei soldati di guardia, le lacrime degli ufficiali nella camera ardente, esposte senza vergogna. E soprattutto il senso di straniamento, l'incredulità, la disillusione brusca e amarissima. La coscienza improvvisa che la guerra, nonostante i giuramenti contrari, è e resterà sempre questo: sangue, dolore, morte.