Pagina 1 di 1

Il trionfo di Kamala Harris, la prima donna vicepresidente

MessaggioInviato: dom nov 08, 2020 9:48 am
da lidia.pege
Il trionfo di Kamala Harris, la prima donna vicepresidente
di Alberto Flores D'Arcais Repubblica 7.11.10
Origini indiane e giamaicane, cresciuta in mezzo agli attivisti afroamericani, è l'altra faccia del ticket vincitore: quella che guarda di più al futuro
WASHINGTON - Kamala, con l'accento sulla prima a. Le è capitato di frequente in questi due anni, da quel 21 gennaio 2019 in cui annunciò la sua candidatura alla Casa Bianca, di dover correggere chi pronunciava il suo nome. Lo ha sempre fatto con il sorriso, che è diventato un suo marchio di fabbrica (un commentatore televisivo l'ha paragonato a quello famoso di Ronald Reagan) come la sua combattività; quella che l'ha resa celebre nelle audizioni al Congresso (e in tv) e di cui hanno fatto le spese politici di rango, ministri della Giustizia e futuri giudici della Corte Suprema.

Ha il cognome da 'wasp', ma il dna è da migrante. La madre, Shyamala Gopalan, biologa immigrata dall'India e induista, l'ha voluta chiamare col nome (in sanscrito) di una divinità indù della prosperità. Il padre Donald, nero giamaicano e professore di economia a Stanford, le ha donato il colore della pelle. Insieme, madre e padre, l'hanno cresciuta in mezzo agli attivisti per i diritti civili, tra proteste e incontri sociali in salotti 'radical' dove i libri più letti erano quelli che nelle scuole non c'erano, scrittori afroamericani come Ralph Ellison, Carter G. Woodson e W.E.B. Du Bois. Dal nonno materno (un diplomatico) ha preso la passione per gli studi (legge e relazioni internazionali), dalla Berkeley/Oakland in cui è nata e cresciuta, quella per le proteste di strada e la lotta alla criminalità. Si è sposata a 50 anni (nel 2014), con l'avvocato Douglas Emhoff.

Ha milioni di fans e altrettanti di odiatori, ha fatto perdere le staffe a navigati senatori con le sue domande dirette, il tono un po' inquisitorio e una grinta che le ha fatto guadagnare tra i media l'appellativo di unica senatrice "con gli attributi". Nelle primarie democratiche ha finito per scontentare un po' tutti, troppo moderata per alcuni, troppo adattabile per altri, in quella sfida ideologica che stava spaccando il partito di Roosevelt, Kennedy, Clinton e Obama dove veniva considerata ora un "duro procuratore", ora "una simpatica donna". Nel primo dibattito tv aveva stroncato proprio Joe Biden, mettendolo in grande difficoltà su temi sensibili quali il razzismo ("non ti vergogni neanche oggi di aver appoggiato senatori segregazionisti?"), ricevendo un'ondata di donazioni online da ogni angolo d'America.


Nel corso della sua carriera da senatrice non ha mai voluto auto-classificarsi in un gruppo sociale, razziale, etnico o religioso definito, presentandosi sempre e soltanto come una "americana orgogliosa". Da quando si è candidata, ha raccontato in diverse interviste, "ho dovuto combattere sempre con gli stereotipi creati da altri". Non c'è dubbio che, dopo il divorzio dei genitori (lei aveva sette anni), la comunità afro-americana abbia avuto una grande influenza su di lei, cresciuta con la sorella minore Maya all'interno della middle class nera di Oakland. Nel suo libro di memorie del 2019 "The Truths We Hold" scrive che sua madre "capì molto bene che stava crescendo due figlie di colore, sapeva che la sua patria adottiva avrebbe visto Maya e me come ragazze di colore ed era determinata ad assicurarsi che saremmo diventate donne sicure e orgogliose".

In qualcosa ricorda Michelle Obama, cui nel 2008 veniva chiesto costantemente di dimostrare il proprio patriottismo. La futura First Lady rispondeva che per la prima volta era davvero orgogliosa degli Stati Uniti, perché la gente voleva un vero cambiamento. Parole che scatenarono indignazione e odio a destra, in quei social network che avevano fatto irruzione per la prima volta in una campagna elettorale. Oggi, moltiplicati per cento, sono gli stessi attacchi, le stesse accuse - razziste e sessiste - che Harris riceve dagli haters del web.

Prima donna non bianca ad essere nominata da uno dei due tradizionali partiti degli Stati Uniti per una delle due cariche più importanti, entra alla Casa Bianca dalla porta principale, quella dove un tempo ormai lontano una donna (o un uomo) col colore della sua pelle non avrebbe avuto accesso. Nella sua figura racchiude l'America cosmopolita, nella sua carriera ha celebrato una 'prima' dopo l'altra: prima procuratrice distrettuale di San Francisco, prima procuratrice generale della California, prima senatrice di colore a rappresentare la California al Congresso di Washington.

Joe Biden ha confessato a più di un amico che si considera un po' un candidato (e oggi presidente) di "transizione", tra i cui compiti c'è anche quello di portare una nuova generazione di leader nella sua Casa Bianca. La scelta di avere come compagna di corsa la prima donna di colore, la prima di origine asiatica e con un background multiculturale e interreligioso, oltre ad essere un omaggio alla nuova diversità dell'America - una nazione meno bianca e meno protestante - è anche un'indicazione per un futuro non troppo lontano. Diventando presidente a 78 anni, Biden finirà il suo primo mandato quando ne avrà 82, forse troppi anche per un vecchio combattente della politica come lui. In quel caso Harris potrebbe ragionevolmente pensare di essere la più adatta alla successione.