Liliana Segre. La memoria che fa liberi
Inviato: lun ott 12, 2020 7:49 am
Limpido e potente dono di Liliana Segre. La memoria che fa liberi
Svvenire Marina Corradi sabato 10 ottobre 2020
Aveva otto anni ed era a tavola con il papà e i nonni. Le dissero: non puoi più andare a scuola. Lei sbalordita domandò perché. Le leggi razziali, le risposero. Era il 1938, a Milano. «Delle mie compagne, solo tre si ricordarono di me. Le altre nemmeno si accorsero che non c’ero più».
È l’ultimo giorno della festa ebraica delle Capanne, festa di ringraziamento, festa del raccolto. A 90 anni Liliana Segre testimonia pubblicamente per l’ultima volta la sua storia da Rondine, la Cittadella della Pace, nell’Aretino. C’è il premier Conte, c’è il cardinale Bassetti, ci sono i presidenti di Camera e Senato e importanti ministri. Ma soprattutto milioni di studenti, dalle scuole, stanno a guardare. La senatrice a vita parla per loro: è un passaggio di testimone. «Lo so - sorride - è difficile credere che ho avuto anch’io tredici anni». Sotto ai capelli candidi, allora, cerchi di ritrovare una ragazzina. Fatichi, ma nell’istante in cui ti pare di intravvederne i lineamenti acerbi la pena si fa tagliente: era poco più di una bambina, quando la deportarono in Germania, disperatamente attaccata alla mano del padre.
Liliana Segre usa le parole castamente, senza enfasi alcuna, ma proprio da queste parole piane la tragedia affiora e si delinea, unica, spaventosa. Quel binario alla Stazione Centrale, quei carri bestiame stipati da cui venivano urla e pianti, che nessuno ascoltava. L’indifferenza è una protagonista assoluta del racconto: le compagne di scuola che non fecero domande, le finestre delle case di Milano chiuse, quando gli ebrei venivano arrestati. Ma, aggiunge la Segre, «I detenuti di San Vittore che ci videro in seicento, adulti e bambini, portati via, ci gridarono: "Che Dio vi benedica!". Erano carcerati, ma erano uomini».
Uomini e no, è questo forse il filo profondo sotteso alla ultima testimonianza pubblica di una degli ultimi ex deportati viventi. I soldati svizzeri che al confine rimandarono indietro quel padre e la sua bambina, guardandoli con disprezzo, erano «uomini della legge». Ma non erano uomini. («Io sono stata clandestina e richiedente asilo, e so cosa vuol dire essere respinta», aggiunge la signora. Quasi un brusco richiamo alla platea di autorità, e ai ragazzi in ascolto: come dicendo, vi parlo anche dell’oggi).L’arrivo ad Auschwitz, la selezione dei più forti. Il padre mandato a morte, lei scelta per lavorare. Trenta ragazze italiane rasate e spogliate e rivestite da prigioniere, attonite, costrette a fatiche massacranti – e in fondo al campo la ciminiera continuava atrocemente a fumare. La Segre con onestà cristallina confessa che non c’era solidarietà nemmeno fra le prigioniere: «Quando ti è tolto tutto diventi disumana, egoista, combatti per una coperta che ti protegga dal freddo. Diventi ciò che vogliono i tuoi aguzzini».
Dunque, perfino le vittime vengono deturpate nella loro umanità, nel fondo del male. E quando la compagna Janine, ferita a una mano, viene scartata dal lavoro e mandata a morire, Liliana non si volta a salutarla: «Io mi ero salvata, e non mi importava di altro. È un ricordo orribile che ho di me».
Poi i soldati russi che si approssimano, le prigioniere e i prigionieri trascinati dai nazisti in una marcia della morte senza meta. Zero uomini in quei giorni di agonia. Zero pietà, non una finestra che si aprisse, nelle strade. Solo alla fine, nell’ultimo campo, dei giovani prigionieri di guerra francesi guardano quelle ragazze sfinite con misericordia: «Ma chi siete voi? Poverette!» Il primo segno della fine dell’orrore è la pietà: uomini di nuovo, negli ultimi bagliori dei combattimenti.
Liliana, quindicenne, si trova davanti il comandante del lager, che getta la divisa e la pistola. È un istante: la voglia di vendetta nella prigioniera sfinita preme. Ma lei decide: no. «Ed è da allora – conclude – che sono una donna libera».
Libera, dentro una memoria di tenebre. Schiere di non-uomini si allineano nei suoi ricordi, e quegli occhi, ancora, dei soldati ligi agli ordini e alla legge, che la cacciarono dalla Svizzera. Il passato e il presente s’intrecciano («Io so, cos’è essere clandestina e respinta»). Ma lacera ancora di più forse il ricordo della bionda Janine, lasciata senza una parola, nell’annientamento prodotto dal lager.
Cosa dice ai nostri figli la ex deportata numero 75190 al suo ultimo incontro pubblico? Dice che si sceglie, sempre, se essere uomini. Se benedire degli innocenti miserabili, come i detenuti di San Vittore quel giorno, o chiudere le finestre al loro passaggio, come fece mezza Europa.
Memorabile testimonianza, e bello, per una volta, vedere chi ci rappresenta ascoltare in silenzio, assorto, insieme a milioni di ragazzi, su questa lezione di vita. Ma, non è solo storia passata. I miserabili ci sono ancora, e le finestre, spesso, rimangono chiuse. Però possiamo sempre scegliere, come la Segre adolescente quel giorno, davanti al suo aguzzino ormai inerme. Scegliere: uomini, o no.
Svvenire Marina Corradi sabato 10 ottobre 2020
Aveva otto anni ed era a tavola con il papà e i nonni. Le dissero: non puoi più andare a scuola. Lei sbalordita domandò perché. Le leggi razziali, le risposero. Era il 1938, a Milano. «Delle mie compagne, solo tre si ricordarono di me. Le altre nemmeno si accorsero che non c’ero più».
È l’ultimo giorno della festa ebraica delle Capanne, festa di ringraziamento, festa del raccolto. A 90 anni Liliana Segre testimonia pubblicamente per l’ultima volta la sua storia da Rondine, la Cittadella della Pace, nell’Aretino. C’è il premier Conte, c’è il cardinale Bassetti, ci sono i presidenti di Camera e Senato e importanti ministri. Ma soprattutto milioni di studenti, dalle scuole, stanno a guardare. La senatrice a vita parla per loro: è un passaggio di testimone. «Lo so - sorride - è difficile credere che ho avuto anch’io tredici anni». Sotto ai capelli candidi, allora, cerchi di ritrovare una ragazzina. Fatichi, ma nell’istante in cui ti pare di intravvederne i lineamenti acerbi la pena si fa tagliente: era poco più di una bambina, quando la deportarono in Germania, disperatamente attaccata alla mano del padre.
Liliana Segre usa le parole castamente, senza enfasi alcuna, ma proprio da queste parole piane la tragedia affiora e si delinea, unica, spaventosa. Quel binario alla Stazione Centrale, quei carri bestiame stipati da cui venivano urla e pianti, che nessuno ascoltava. L’indifferenza è una protagonista assoluta del racconto: le compagne di scuola che non fecero domande, le finestre delle case di Milano chiuse, quando gli ebrei venivano arrestati. Ma, aggiunge la Segre, «I detenuti di San Vittore che ci videro in seicento, adulti e bambini, portati via, ci gridarono: "Che Dio vi benedica!". Erano carcerati, ma erano uomini».
Uomini e no, è questo forse il filo profondo sotteso alla ultima testimonianza pubblica di una degli ultimi ex deportati viventi. I soldati svizzeri che al confine rimandarono indietro quel padre e la sua bambina, guardandoli con disprezzo, erano «uomini della legge». Ma non erano uomini. («Io sono stata clandestina e richiedente asilo, e so cosa vuol dire essere respinta», aggiunge la signora. Quasi un brusco richiamo alla platea di autorità, e ai ragazzi in ascolto: come dicendo, vi parlo anche dell’oggi).L’arrivo ad Auschwitz, la selezione dei più forti. Il padre mandato a morte, lei scelta per lavorare. Trenta ragazze italiane rasate e spogliate e rivestite da prigioniere, attonite, costrette a fatiche massacranti – e in fondo al campo la ciminiera continuava atrocemente a fumare. La Segre con onestà cristallina confessa che non c’era solidarietà nemmeno fra le prigioniere: «Quando ti è tolto tutto diventi disumana, egoista, combatti per una coperta che ti protegga dal freddo. Diventi ciò che vogliono i tuoi aguzzini».
Dunque, perfino le vittime vengono deturpate nella loro umanità, nel fondo del male. E quando la compagna Janine, ferita a una mano, viene scartata dal lavoro e mandata a morire, Liliana non si volta a salutarla: «Io mi ero salvata, e non mi importava di altro. È un ricordo orribile che ho di me».
Poi i soldati russi che si approssimano, le prigioniere e i prigionieri trascinati dai nazisti in una marcia della morte senza meta. Zero uomini in quei giorni di agonia. Zero pietà, non una finestra che si aprisse, nelle strade. Solo alla fine, nell’ultimo campo, dei giovani prigionieri di guerra francesi guardano quelle ragazze sfinite con misericordia: «Ma chi siete voi? Poverette!» Il primo segno della fine dell’orrore è la pietà: uomini di nuovo, negli ultimi bagliori dei combattimenti.
Liliana, quindicenne, si trova davanti il comandante del lager, che getta la divisa e la pistola. È un istante: la voglia di vendetta nella prigioniera sfinita preme. Ma lei decide: no. «Ed è da allora – conclude – che sono una donna libera».
Libera, dentro una memoria di tenebre. Schiere di non-uomini si allineano nei suoi ricordi, e quegli occhi, ancora, dei soldati ligi agli ordini e alla legge, che la cacciarono dalla Svizzera. Il passato e il presente s’intrecciano («Io so, cos’è essere clandestina e respinta»). Ma lacera ancora di più forse il ricordo della bionda Janine, lasciata senza una parola, nell’annientamento prodotto dal lager.
Cosa dice ai nostri figli la ex deportata numero 75190 al suo ultimo incontro pubblico? Dice che si sceglie, sempre, se essere uomini. Se benedire degli innocenti miserabili, come i detenuti di San Vittore quel giorno, o chiudere le finestre al loro passaggio, come fece mezza Europa.
Memorabile testimonianza, e bello, per una volta, vedere chi ci rappresenta ascoltare in silenzio, assorto, insieme a milioni di ragazzi, su questa lezione di vita. Ma, non è solo storia passata. I miserabili ci sono ancora, e le finestre, spesso, rimangono chiuse. Però possiamo sempre scegliere, come la Segre adolescente quel giorno, davanti al suo aguzzino ormai inerme. Scegliere: uomini, o no.