Nell’era del populismo penale, la «sicurezza»
non riguarda la società
- Jacopo Rosatelli, Manifesto 25.08.2020
Scaffale. «Anche i ricchi rubano» di Elisa Pazé, magistrata della Procura di Torino, per le Edizioni
Gruppo Abele
Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma qualcuno è più uguale degli altri. A questa conclusione
orwelliana, ad un tempo amara e realistica, si giunge dopo la lettura di Anche i ricchi rubano
(Edizioni Gruppo Abele, pp. 189, euro 14), preziosa ricognizione nell’ordinamento giuridico italiano
ad opera di Elisa Pazé, magistrata in servizio alla Procura di Torino.
L’autrice, che nel suo lavoro quotidiano si occupa di reati economici, non appartiene alla schiera dei
pubblici ministeri in cerca di visibilità mediatica e consenso popolare, ma a quella degli operatori del
diritto il cui rigore professionale fa il paio con l’esercizio del pensiero critico. Il suo debito nei
confronti «del magistero di Luciano Gallino», dichiarato nella premessa del volume, ne è
testimonianza non smentita dai capitoli successivi.
SCRITTO CON PRECISIONE ma senza eccesso di specialismi, anzi con un apprezzabile sforzo di
chiarificazione dei passaggi più ostici per i non addetti ai lavori, il testo illustra tutte le difficoltà che
concretamente esistono nel fare giustizia dei reati commessi dalle classi dominanti, a fronte del
populismo penale che invece colpisce senza pietà gli illeciti dei poveri, la cosiddetta microcriminalità.
Evasione fiscale, bancarotta, aggiotaggio, corruzione, lottizzazioni edilizie abusive, incidenti sul
lavoro, adulterazioni alimentari, rapporti fra politica e mafia: il catalogo è lungo e variegato, perché
molteplici sono le situazioni nelle quali chi ha denaro e potere ne abusa ai danni della collettività o di
soggetti socialmente più indifesi.
La legge, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, dovrebbe essere a particolare
tutela di questi ultimi, ma spesso non è così, nemmeno quando le norme esistono. Anche perché
queste ultime, a volte, sono scritte talmente male da rendere difficile e controversa la loro
applicazione come ad esempio nel caso del nuovo reato di inquinamento ambientale.
L’ORDINAMENTO GIURIDICO è figlio della società di cui è espressione. «Nelle società di
capitalismo avanzato argomenta Pazé c’è una tolleranza ideologica per certi reati, giustificati con la
necessità di non inceppare l’economia». A ciò contribuisce anche la maggioranza dei mezzi di
informazione mainstream: a fronte della grancassa sulla cronaca nera, «dedicano spazi marginali a
morti e infortuni sul lavoro, distorcendo in tal modo la percezione della criminalità».
E così muta la considerazione di cosa sia la «sicurezza», che ormai evoca, nel senso comune, la
pubblica sicurezza e non più la sicurezza sociale, la protezione dell’incolumità personale e non più il
diritto a un’esistenza libera e dignitosa grazie a un lavoro stabile e a un welfare efficiente.
La profondità teorico-critica e l’orizzonte culturale trasformativo mettono questo libro al riparo dal
rischio di confondersi con altre voci del mondo giudiziario italiano che calcano le scene mediatiche
autorappresentandosi come la salvezza della patria contro «i politici» indistintamente corrotti.
CIÒ NON TOGLIE che anche nelle pagine di Pazé si trovi una rigorosa e sacrosanta
rivendicazione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura come condizione necessaria,
anche se non sufficiente, dell’uguaglianza dei cittadini. Uguaglianza che sarebbe ulteriormente
compromessa dalla rimozione dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla separazione delle
carriere fra pm e giudici, progetti che tornano periodicamente in auge quando, come di questi tempi
con il «caso Palamara», la magistratura, o per meglio dire una parte di essa, dà cattiva prova di sé.