Test sierologici, ecco a cosa servono e perché possono essere un rischio
Massimo Calvi AVVENIRE domenica 5 aprile 2020
Alcuni esami del sangue sono in grado di rilevare la positività al virus, ma non sempre in tempo, inoltre c’è un problema di affidabilità
In questi giorni si parla molto di test sierologici, esami del sangue in grado di scoprire in fretta se una persona è già stata contagiata dal coronavirus, è guarita e può tornare a una vita normale senza rischiare di ammalarsi o contagiare altre persone. Molte regioni stanno ricorrendo a questi test, con kit acquistati all’estero. Il ministero della Sanità ha però ricordato che non possono sostituire il test molecolare, perché non affidabili per una diagnosi di positività. Cerchiamo di capire di cosa si tratta, facendoci aiutare dal professor Sergio Rosati, ordinario di malattie infettive degli animali al dipartimento di scienze veterinarie all’Università di Torino, dove si sta lavorando per produrre un test affidabile e made in Italy.
A cosa servono i test sierologici?
A rivelare gli anticorpi che qualsiasi individuo produce in risposta a un’infezione (o a una vaccinazione). In questo caso si tratta di ricercare quelli diretti verso le principali proteine del virus Sars–Cov–2, che è responsabile di Covid–19. Alcuni di questi anticorpi sono diretti verso le proteine esterne che il virus utilizza per attaccarsi alle nostre cellule: si chiamano “neutralizzanti” perché neutralizzano il virus e impediscono la prima fase di attacco, e sono spesso identificati come anticorpi “protettivi”. Dunque i test sierologici ci dicono che una persona ha superato l’infezione e che potrebbe essere protetta.
In cosa si differenzia il test sierologico dal classico tampone?
Sono due test diversi che vedono cose diverse in tempi diversi. Le analisi sul tampone mettono in evidenza il virus. Il test è molto sensibile e risulta positivo nella prima parte della ma-lattia, quando il sistema immunitario non è ancora capace di produrre una risposta efficace. Poi, sempre ipotizzando che Covid19 sia una infezione acuta autolimitante, il sistema immunitario incomincia a elaborare le prime armi di difesa. A questo punto compaiono i primi anticorpi prodotti dall’organismo, di tipo IgM, che si possono rilevare con un esame sierologico già dopo 5–7 giorni dall’infezione, e di solito raggiungono un picco verso la seconda settimana, poi scompaiono. Le IgM dicono che l’infezione è recente. Più robusta è invece la produzione di anticorpi di classe IgG, che compaiono dopo e durano nel tempo. Quasi sempre in presenza di IgG specifiche, il virus scompare e il tampone è negativo: il sistema immunitario ha vinto la sua battaglia. Quindi il test sierologico ci può dire se una persona ha superato la malattia, ma non può sostituire il tampone, perché classificherebbe gli infetti solo quando è ormai tardi per isolare il paziente.
Una persona immunizzata può trasmettere il virus?
Dobbiamo definire il termine “immunizzato”. Chi è immune non trasmette un virus e non si ammala nuovamente, almeno fino a quando perdura l’immunità. In caso di Covid–19 bisogna però ancora capire se la persona sieropositiva, cioè con anticorpi specifici nel sangue, è immune. La ricerca degli anticorpi nel sangue è il modo più pratico e potrebbe essere considerato un marker di protezione, ma non necessariamente la protezione in sé stessa.
Come essere sicuri con un test che una persona non è più contagiosa?
Sono necessari studi come quello che stiamo compiendo, con la stessa procedura usata per i vaccini. E’ necessario seguire nel tempo i soggetti guariti, quantificare il livello di anticorpi e possibilmente effettuare tamponi. Per questo ci siamo concentrati sul personale sanitario. Il test deve essere “quantitativo”, cioè capace di definire la quantità di anticorpi, “sensibile”, cioè in grado di identificare come positivi i soggetti che hanno effettivamente superato l’infezione, e “specifico”, cioè classificare come negativi i soggetti che non sono ancora venuti a contatto con il virus. Questo ultimo aspetto è cruciale perché un test poco specifico potrebbe dare un’illusione di immunità. E risultare pericoloso.
I kit in circolazione sono affidabili?
Difficile dirlo. Molti test sono stati sviluppati in pochissimo tempo e sono stati testati su numeri limitati di campioni. Inoltre sono ancora pochi gli studi scientifici per definire il campo di applicazione dei test sierologici. È inutile e insidioso disporre di un test rapido, se poi non sappiamo come interpretarlo. Inoltre sono quasi sempre test di tipo qualitativo (positivo o negativo), non quantificano il titolo anticorpale. Forse in questa fase sarebbero da privilegiare test eseguibili in laboratorio, di tipo quantitativo. Il Ministero, con la circolare del 3 aprile, ha giustamente frenato sull’utilizzo un po’ schizofrenico dei test rapidi in alcune regioni, che possono procurare più danni che benefici in questo delicato momento dell’epidemia italiana.