Statuto dei lavoratori, 50 anni fa la legge dei diritti
Inviato: mer mag 20, 2020 2:27 pm
Statuto dei lavoratori, 50 anni fa la legge dei diritti si prese la fabbrica
20 maggio 1970: Il Pci si astenne, i liberali dissero sì. Il dibattito era partito già nel ‘63 col centro-sinistra, ma senza sindacati e operai si sarebbe arrestato. Invece si attuò la Costituzione
di Salvatore Cannavò | 18 Maggio 2020 FQ
Per gli equivoci della storia lo Statuto dei lavoratori fu approvato il 14 maggio del 1970 (il 20 andrà in Gazzetta ufficiale) con l’astensione del Pci e il voto favorevole dei liberali, storicamente il partito degli imprenditori.
Ma l’astensione non elimina il fatto che la legge veniva dal profondo della cultura e della vita del movimento operaio. Il primo a parlarne e a immaginare uno “Statuto dei diritti” fu, nel 1952, il segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, di cui, non casualmente, Giacomo Brodolini fu vicesegretario. Di Vittorio parla all’inizio degli anni 50 quando ancora la reazione industriale non si è manifestata del tutto con la forza dei reparti confino o dell’emarginazione della Cgil in Fiat. Solo l’inizio degli anni 60 e con l’avvento del centrosinistra quelle idee sono riabilitate.
Quando il Psi nel 1963 entra direttamente nel governo guidato da Aldo Moro, il segretario socialista Pietro Nenni riprende la bandiera dello Statuto anche in competizione con il Pci, e cerca di affermare così quello che Moro chiama nel suo discorso alla Camera “lo spirito dei tempi”. Il presidente della Dc, nel suo discorso di insediamento, esporrà “il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali , uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Come ricorda Ilaria Romeo, dell’Archivio storico della Cgil, “nel febbraio 1964 la segreteria della Cgil formalizza con una lettera a Nenni non solo il proprio giudizio positivo sullo Statuto, ma ribadisce la richiesta che la legge garantisca i diritti costituzionali dei lavoratori”. Gino Giugni entra a far parte della Commissione nominata dal ministro del Lavoro Bosco per predisporre un progetto di legge, anche se lo stesso Bosco, un dc, è contrario al progetto. Ma la vita del centrosinistra sotto Moro è travagliata per motivi più gravi. Nel 1964 si manifesta il “piano Solo”, pulsioni golpiste che fanno riferimento addirittura al presidente della Repubblica, Antonio Segni. Non è tempo per una misura di grande apertura al mondo del lavoro e il progetto si inabissa.
Nel Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1970, ricorda ancora Romeo, il governo ribadisce l’impegno per uno Statuto dei lavoratori. Pci e Psiup (scissione di sinistra del Psi al momento in cui questo entra al governo con Moro) presentano alla Camera due proposte parallele e il 4 gennaio 1969 il ministro Brodolini annuncia un disegno di legge. Gino Giugni presiederà una Commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali. Poi l’ex sindacalista della Cgil Brodolini, poco prima di morire, lascerà il posto di ministro all’ex sindacalista della Cisl, il dc Carlo Donat-Cattin: la legge andrà avanti.
Nel frattempo c’è stata “l’irruzione delle masse”, è scoppiato il ’68, si prepara l’autunno caldo e la fase di grande rivolgimento della storia italiana. Sarà il segretario della Cgil, Luciano Lama, nel corso del 1970 a ricordarlo: “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori”.
Lo ricordano i deputati del Pci in aula, durante l’approvazione del testo: saranno le lotte sindacali del “biennio rosso” a convincere che una regolamentazione della vita sindacale in fabbrica è necessaria. E che, in realtà, conviene anche ai “padroni”, come il Pci chiamava allora gli imprenditori.
In ogni caso, la Costituzione entra materialmente nelle fabbriche, si sanciscono diritti essenziali come quello di opinione, di libertà di riunione, di non essere spiati o vigilati impropriamente, di non essere licenziati arbitrariamente. Si ribadisce il diritto alla salute in fabbrica o quello di mantenere la mansione acquisita. All’articolo 9 si introduce il diritto della salute e della sicurezza in fabbrica, con l’articolo 19 si ufficializzano le Rappresentanze sindacali e si garantiscono vari diritti come quello di assemblea, di referendum, i permessi retribuiti, il diritto di affissione, alle trattenute sindacali, all’utilizzo di locali per l’attività sindacale. L’articolo 28 rende giuridicamente nulli gli atti, come i licenziamenti o altro, “diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.
Che sia stata la Costituzione a entrare in fabbrica è confermato dalla serie di ricorsi giudiziari vittoriosi contro le varie manomissioni legislative battute invocando la Carta costituzionale. Che una sinistra pseudo-moderna abbia voluto invocare la cancellazione di quella straordinaria riforma si spiega con la cecità tracotante oppure con la connivenza. Resta che quella stagione, e quella riforma, hanno costituito un’anima di ferro del progressismo italiano. Un utile esempio per chi, in tempi di grande ricostruzione come quelli attuali, volesse dotarsi di visioni e orizzonti più robusti.
20 maggio 1970: Il Pci si astenne, i liberali dissero sì. Il dibattito era partito già nel ‘63 col centro-sinistra, ma senza sindacati e operai si sarebbe arrestato. Invece si attuò la Costituzione
di Salvatore Cannavò | 18 Maggio 2020 FQ
Per gli equivoci della storia lo Statuto dei lavoratori fu approvato il 14 maggio del 1970 (il 20 andrà in Gazzetta ufficiale) con l’astensione del Pci e il voto favorevole dei liberali, storicamente il partito degli imprenditori.
Ma l’astensione non elimina il fatto che la legge veniva dal profondo della cultura e della vita del movimento operaio. Il primo a parlarne e a immaginare uno “Statuto dei diritti” fu, nel 1952, il segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, di cui, non casualmente, Giacomo Brodolini fu vicesegretario. Di Vittorio parla all’inizio degli anni 50 quando ancora la reazione industriale non si è manifestata del tutto con la forza dei reparti confino o dell’emarginazione della Cgil in Fiat. Solo l’inizio degli anni 60 e con l’avvento del centrosinistra quelle idee sono riabilitate.
Quando il Psi nel 1963 entra direttamente nel governo guidato da Aldo Moro, il segretario socialista Pietro Nenni riprende la bandiera dello Statuto anche in competizione con il Pci, e cerca di affermare così quello che Moro chiama nel suo discorso alla Camera “lo spirito dei tempi”. Il presidente della Dc, nel suo discorso di insediamento, esporrà “il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali , uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Come ricorda Ilaria Romeo, dell’Archivio storico della Cgil, “nel febbraio 1964 la segreteria della Cgil formalizza con una lettera a Nenni non solo il proprio giudizio positivo sullo Statuto, ma ribadisce la richiesta che la legge garantisca i diritti costituzionali dei lavoratori”. Gino Giugni entra a far parte della Commissione nominata dal ministro del Lavoro Bosco per predisporre un progetto di legge, anche se lo stesso Bosco, un dc, è contrario al progetto. Ma la vita del centrosinistra sotto Moro è travagliata per motivi più gravi. Nel 1964 si manifesta il “piano Solo”, pulsioni golpiste che fanno riferimento addirittura al presidente della Repubblica, Antonio Segni. Non è tempo per una misura di grande apertura al mondo del lavoro e il progetto si inabissa.
Nel Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1970, ricorda ancora Romeo, il governo ribadisce l’impegno per uno Statuto dei lavoratori. Pci e Psiup (scissione di sinistra del Psi al momento in cui questo entra al governo con Moro) presentano alla Camera due proposte parallele e il 4 gennaio 1969 il ministro Brodolini annuncia un disegno di legge. Gino Giugni presiederà una Commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali. Poi l’ex sindacalista della Cgil Brodolini, poco prima di morire, lascerà il posto di ministro all’ex sindacalista della Cisl, il dc Carlo Donat-Cattin: la legge andrà avanti.
Nel frattempo c’è stata “l’irruzione delle masse”, è scoppiato il ’68, si prepara l’autunno caldo e la fase di grande rivolgimento della storia italiana. Sarà il segretario della Cgil, Luciano Lama, nel corso del 1970 a ricordarlo: “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori”.
Lo ricordano i deputati del Pci in aula, durante l’approvazione del testo: saranno le lotte sindacali del “biennio rosso” a convincere che una regolamentazione della vita sindacale in fabbrica è necessaria. E che, in realtà, conviene anche ai “padroni”, come il Pci chiamava allora gli imprenditori.
In ogni caso, la Costituzione entra materialmente nelle fabbriche, si sanciscono diritti essenziali come quello di opinione, di libertà di riunione, di non essere spiati o vigilati impropriamente, di non essere licenziati arbitrariamente. Si ribadisce il diritto alla salute in fabbrica o quello di mantenere la mansione acquisita. All’articolo 9 si introduce il diritto della salute e della sicurezza in fabbrica, con l’articolo 19 si ufficializzano le Rappresentanze sindacali e si garantiscono vari diritti come quello di assemblea, di referendum, i permessi retribuiti, il diritto di affissione, alle trattenute sindacali, all’utilizzo di locali per l’attività sindacale. L’articolo 28 rende giuridicamente nulli gli atti, come i licenziamenti o altro, “diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.
Che sia stata la Costituzione a entrare in fabbrica è confermato dalla serie di ricorsi giudiziari vittoriosi contro le varie manomissioni legislative battute invocando la Carta costituzionale. Che una sinistra pseudo-moderna abbia voluto invocare la cancellazione di quella straordinaria riforma si spiega con la cecità tracotante oppure con la connivenza. Resta che quella stagione, e quella riforma, hanno costituito un’anima di ferro del progressismo italiano. Un utile esempio per chi, in tempi di grande ricostruzione come quelli attuali, volesse dotarsi di visioni e orizzonti più robusti.