“Perdersi per ritrovarsi": in ricordo di Ezio Bosso
di Marina Santi Università di Padova
TANIA/CONTRASTO
Ezio Bosso ha lasciato la sua “dodicesima stanza” e ci lascia dentro le nostre, a guardar fuori gli uccelli che volano a perdita d’occhio. Da pedagogista, vorrei ricordare questo grande musicista e uomo con queste due immagini: una stanza, un volo d’uccelli.
La dodicesima stanza rappresenta per Bosso un tempo, più che un luogo; un tempo della vita; un tempo da cui si possono vedere e dare un senso a tutti i momenti della nostra storia, compreso quello dimenticato della nascita. Il tempo di cui ci parla Bosso, non è un tempo lineare: è “durata”, è “aion”, è un “modo di stare” nella vita come nella musica, peregrinando con lo sguardo… volgendo l’attenzione a ciò che non ne sembra degno; esplorando la bellezza delle piccole cose del quotidiano. La stanza, anzi le stanze della vita, di cui parla Bosso non sono solo spazi di chiusura, di reclusione, di “distanziazione”, diremo oggi; la parola stanza ha a che vedere con lo stare nelle cose, con l’abitare lo spazio della casa che è il mondo. Ezio Bosso, dice questo durante un’esibizione del 2016 al Festival di Sanremo, e in quel discorso fatto di fronte a milioni di telespettatori commossi, ci descrive la “sua” dodicesima stanza come un luogo di buio della malattia e di rinascita al mondo:
“È questa malattia che mi ha fatto entrare nella mia dodicesima stanza. Era buia. Per il solo fatto di esserci entrato, ho disimparato tutto: a parlare, camminare, suonare. E poi ho imparato tutto di nuovo. È come se fossi rinato. È stato sulla sua soglia che hanno cominciato a sbocciare delle cose, a cadere delle reti. Ho deciso, per la prima volta, di incidere un disco, ho trovato il coraggio di fare il primo tour da solo, senza altri" (Bosso, 2016, s./p.)
Da docente di Pedagogia e Didattica Speciale potrei vedere in questo luogo/tempo il momento della resilienza o del riscatto della differenza che scaturisce dalla disabilità, quando meno te lo aspetti e nonostante gli altri non se lo aspettino… Invece no. Pedagogicamente quella stanza è il luogo del disimparamento delle abitudini, dell’incertezza che muove quell’errare che “umano è”. Quella stanza è il luogo dell’infanzia che ci attende alla fine dei giorni… un po’ come suggeriva Nietzsche con la sua trilogia dell’esistenza che “innalza” il leone, prima a cammello e infine a fanciullo.
Quella stanza è il luogo dell’infanzia che ci attende alla fine dei giorni
“Gettato involontariamente in quest’ultima stanza, Ezio Bosso ha dovuto prima disimparare tutto per imparare tutto di nuovo. È tornato alla sua infanzia. Non lo dice con tristezza, ma con un’allegria infantile. Sembra pronto a ricominciare la vita, ad abitare di nuovo la prima stanza, quella dell’infanzia. Sembra pronto anche per vivere la vita come un continuo ricominciare, come un’infanzia che si protrae nel tempo. La vita lo ha condotto all’infanzia e l’infanzia gli ha concesso una nuova vita. Così suona il piano Ezio Bosso; così pensa la vita, la morte, la musica: in modo infantile, abitandole ogni volta come se fosse la prima volta”.
Così il mio amico Walter Kohan, dall’Università di Rio de Janeiro, aveva commentato il video di Bosso, che gli avevo inviato in diretta la sera del Festival… le sue parole mi tornano alla mente e al cuore e credo valga la pena di condividerle con voi lettori, affranti per la perdita di questo “musicista bambino”. Perché nulla vada perso… o meglio perché perdendoci, come lui suggeriva, possiamo ritrovarci.
Disimparare a vivere: questo è ciò che le crisi, le emergenze, le sorprese ci riservano
Disimparare a vivere: questo è ciò che le crisi, le emergenze, le sorprese ci riservano. E così accade, che questa parola, come tante altre con dinnanzi il prefisso “dis” che ci impauriscono – distanza, disastro, discarica, ma anche disabilità, dislessia, disturbo – possano invece aprire altri orizzonti. Mai come oggi la paura di disimparare e di “restare indietro” ha catturato le priorità di istituzioni scolastiche, universitarie, economiche… le parole di Bosso sembrano invitarci ad avere meno paura del tempo sospeso, del tempo perso, che non sempre è perduto; meno timore di perdersi Following a bird, titolo emblematico di una sua composizione, divenuta l’incipit di tanti suoi concerti. Il sottotitolo “Out of the room” è, forse, ancora più evocativo: quasi che seguire con lo sguardo un uccello nel cielo, che sfida, con le sue direzioni inattese e impreviste, la nostra osservazione facendola attenzione, possa essere la via per uscire da una stanza-prigione autoreferenziale.
Perdersi è esperienza fondamentale della vita come della musica; perdere è la paradossale condizione del comporre, come atto creativo umilmente umano. Perdersi è anche la condizione decisiva dell’educare, perché perdersi è – per la musica come per l’educazione - la condizione dell’ascolto. Ezio Bosso unisce la destinazione “non lineare” degli esseri umani in un comune “destino musicale”; un destino che condividiamo nella misura in cui siamo capaci di ascoltare. Una capacità che unisce e che la musica insegna, sia a chi “ci mette le mani” – come Bosso sul suo pianoforte – sia a chi, nel riconoscere l’intenzionalità di quelle mani erranti, “ci mette le orecchie”.
Una capacità che è un atteggiamento e una disponibilità verso la vita, che si impara stando insieme; una disposizione che va nutrita affinché la vita stessa non finisca ingabbiata nella dodicesima stanza dell’egocentrismo, del narcisismo, della solitudine, ma arrivi a quella stanza che apre all’ascolto dell’altro, Following a bird.
Comporre questo pezzo musicale svelò a Bosso qualcosa di fondamentale: “l’importanza di perdersi per imparare a seguire”. In quel discorso a Sanremo, Ezio ammonì chi nega un valore alla perdita e la rimuove: “perdere pregiudizi, paure, dolori ti avvicina e ti fa continuare”.
Perdere se stessi, disimparare ciò che siamo per poter perseguire altri modi di vivere
Kohan
“Bisogna perdersi per poter andare oltre ciò che possiamo essere. Così la musica è una metafora della vita che educa. Perdere se stessi, disimparare ciò che siamo per poter perseguire altri modi di vivere. Così, Ezio Bosso ha fatto del suo modo di relazionarsi con la musica una scuola di vita” (Kohan, 2016).
Riverberano nella mia mente - più ricche di senso - le parole commosse del mio amico oltre oceano…
“In questo modo, Ezio Bosso parla della musica come se fosse filosofia dell’esistenza e pedagogia della vita; così, “perdersi per imparare a seguire” potrebbe essere il leit motiv di una vita che educa: l’invito ad una “pedagogia povera”, a trovare un cammino per una nuova “ricerca educativa” e vedere dove ci porta (Masschelein, 2006). Camminare senza sapere in anticipo dove andare, lasciando che il cammino stesso conduca il nostro sguardo. Camminare per potere vedere ciò che prima di camminare non potevamo vedere né credevamo fosse possibile o desiderabile vedere; camminare, senza anticipare quello che vedremo, spostando in là il nostro sguardo; camminare per poter dar luogo a un’esperienza, nel cammino, e uscirne diversi” (ib.).
Camminare come educazione errante, per dis-imparare a trovare e per imparare a seguire, ascoltando ciò che non si ha e non si possiede; stando (nella stanza) sul bordo del senso, abitando il senso del bordo, del margine, dell’estremo che risuona e ha il suo senso nel risuonare stesso, che è un suonare insieme.
“Quando ascolti, capisci. Ascoltare è un gesto di generosità. Quando faccio un concerto io ci metto le mani, ma il resto ce lo mette chi ascolta: suoniamo insieme.”
Suoniamo insieme un’ode comune… forse “Pansodia”, lo scorso 30 aprile, nell’International Jazz Day, voleva assomigliare a questo? Un tentativo di perdersi in un volo, in un flusso, nel groove che ci possa far ritrovare altrove?