Quel regalo alle mafie non s’ha da fare
Inviato: gio mag 07, 2020 3:57 pm
Lo scontro Di Matteo - Bonafede. Quel regalo alle mafie non s’ha da fare
Maurizio Patriciello giovedì 7 maggio 2020 Avvenire
Nino Di Matteo non è una persona qualsiasi, come non lo sono Federico Cafiero de Raho, Nicola Gratteri, Catello Maresca; come non lo erano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livatino. Come non lo sono la stragrande maggioranza di magistrati, giornalisti, politici, avvocati e preti invisi alle mafie. Alfonso Bonafede è ministro della giustizia. Ognuno, secondo i propri ruoli e le proprie responsabilità, ha il dovere di assicurare agli italiani una vita serena, libera dall’insopportabile, fetido, flagello di mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi.
Tra Di Matteo e Bonafede, in questi giorni, ci sono dei contrasti sbandierati in pubblico. I mafiosi non sono delinquenti comuni. Non amano nessuno, nemmeno i loro stessi figli per i quali giurano di dare la vita. Invasi da una bramosia di potere e di avere sono disposti a tutto. Le mafie sono una pesantissima palla al piede che l’Italia trascina da troppo tempo. Gli italiani, in particolare coloro che hanno pagato sulla propria pelle le malefatte, le vigliaccherie, le prepotenze, le sanguinarie spedizioni di morte di costoro, devono fare uno sforzo non piccolo per tenere a bada un aspro senso di repulsione.
Le mafie italiane sono una realtà in grado di tenere impantanato uno dei territori più belli e affascinanti al mondo. Certo, senza la complicità di tanti colletti bianchi (insozzati) e di uomini (disonesti) delle istituzioni, non sarebbero così in salute... La lista delle persone perbene che per spegnere questo fuoco devastante ci hanno rimesso la vita è lunga e dolorosa. Di ognuno di loro la Repubblica deve andare fiera e tramandare la memoria ai posteri.
Meglio per tutti sarebbe però riconoscere e appoggiare gli eroi in vita e non dopo la loro tragica morte. I vecchi filmati in cui qualcuno metteva in dubbio le nobili intenzioni di Giovanni Falcone, come, addirittura, il fallito attentato dell’Addaura, rattristano. E ombre gravano ancora sull’orribile morte di Paolo Borsellino e dei suoi 'angeli custodi'. Mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi sono pericolosi, perché sono nemici nostri e della democrazia, nemici de vivere civile e della serenità e del futuro dei nostri figli.
Di loro ne abbiamo le tasche piene. Gli italiani, però, non cedono, e non cederanno, alla tentazione della vendetta e dell’odio. Rinchiudere un essere umano in una cella d’isolamento è duro e umiliante per tutti, per il carcerato, per il giudice, per le stesse vittime. La società, però, ha il diritto di difendere se stessa e il dovere di mettere in sicurezza gli innocenti. La riapertura delle porte del carcere per un detenuto, dopo aver scontato la pena, dovrebbe essere accompagnata da un canto di vittoria, se costui cambiasse vita. Con mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi, purtroppo, non accade spesso.
Appena liberi sono pronti a ricominciare daccapo. E torna l’incubo. Tutti sanno, poi, che certi 'capi', come burattinai, riescono purtroppo a manovrare i propri affiliati anche da dietro le sbarre. Per i detenuti, quindi, chiediamo ad alta voce che siano rispettati i diritti che la Costituzione prevede. E che non sia dimenticato nemmeno uno di loro. Allo stesso modo, con la stessa determinazione, pretendiamo che nessun mafioso sia rimandato a casa. Quando due diritti confliggono occorre che nessuno di essi venga calpestato. E se un problema è complesso, come tale deve essere affrontato.
Scorciatoie non ce ne dovranno essere per nessuno, soprattutto per i mafiosi. Si dovranno prevedere, invece, soluzioni alternative che vadano incontro ai diritti del detenuto senza trasformarsi in trappole per gli innocenti. Questo, proprio, non s’ha da fare. In un tempo particolarmente difficile come l’attuale, i contrasti tra magistrati in prima linea e ministro della Giustizia addolorano e sconcertano i cittadini, soprattutto quelli costretti a convivere in territori a forte presenza mafiosa. C’è bisogno di unità. Non di scenate, di ripicche e di regali ai malviventi.
Maurizio Patriciello giovedì 7 maggio 2020 Avvenire
Nino Di Matteo non è una persona qualsiasi, come non lo sono Federico Cafiero de Raho, Nicola Gratteri, Catello Maresca; come non lo erano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livatino. Come non lo sono la stragrande maggioranza di magistrati, giornalisti, politici, avvocati e preti invisi alle mafie. Alfonso Bonafede è ministro della giustizia. Ognuno, secondo i propri ruoli e le proprie responsabilità, ha il dovere di assicurare agli italiani una vita serena, libera dall’insopportabile, fetido, flagello di mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi.
Tra Di Matteo e Bonafede, in questi giorni, ci sono dei contrasti sbandierati in pubblico. I mafiosi non sono delinquenti comuni. Non amano nessuno, nemmeno i loro stessi figli per i quali giurano di dare la vita. Invasi da una bramosia di potere e di avere sono disposti a tutto. Le mafie sono una pesantissima palla al piede che l’Italia trascina da troppo tempo. Gli italiani, in particolare coloro che hanno pagato sulla propria pelle le malefatte, le vigliaccherie, le prepotenze, le sanguinarie spedizioni di morte di costoro, devono fare uno sforzo non piccolo per tenere a bada un aspro senso di repulsione.
Le mafie italiane sono una realtà in grado di tenere impantanato uno dei territori più belli e affascinanti al mondo. Certo, senza la complicità di tanti colletti bianchi (insozzati) e di uomini (disonesti) delle istituzioni, non sarebbero così in salute... La lista delle persone perbene che per spegnere questo fuoco devastante ci hanno rimesso la vita è lunga e dolorosa. Di ognuno di loro la Repubblica deve andare fiera e tramandare la memoria ai posteri.
Meglio per tutti sarebbe però riconoscere e appoggiare gli eroi in vita e non dopo la loro tragica morte. I vecchi filmati in cui qualcuno metteva in dubbio le nobili intenzioni di Giovanni Falcone, come, addirittura, il fallito attentato dell’Addaura, rattristano. E ombre gravano ancora sull’orribile morte di Paolo Borsellino e dei suoi 'angeli custodi'. Mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi sono pericolosi, perché sono nemici nostri e della democrazia, nemici de vivere civile e della serenità e del futuro dei nostri figli.
Di loro ne abbiamo le tasche piene. Gli italiani, però, non cedono, e non cederanno, alla tentazione della vendetta e dell’odio. Rinchiudere un essere umano in una cella d’isolamento è duro e umiliante per tutti, per il carcerato, per il giudice, per le stesse vittime. La società, però, ha il diritto di difendere se stessa e il dovere di mettere in sicurezza gli innocenti. La riapertura delle porte del carcere per un detenuto, dopo aver scontato la pena, dovrebbe essere accompagnata da un canto di vittoria, se costui cambiasse vita. Con mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi, purtroppo, non accade spesso.
Appena liberi sono pronti a ricominciare daccapo. E torna l’incubo. Tutti sanno, poi, che certi 'capi', come burattinai, riescono purtroppo a manovrare i propri affiliati anche da dietro le sbarre. Per i detenuti, quindi, chiediamo ad alta voce che siano rispettati i diritti che la Costituzione prevede. E che non sia dimenticato nemmeno uno di loro. Allo stesso modo, con la stessa determinazione, pretendiamo che nessun mafioso sia rimandato a casa. Quando due diritti confliggono occorre che nessuno di essi venga calpestato. E se un problema è complesso, come tale deve essere affrontato.
Scorciatoie non ce ne dovranno essere per nessuno, soprattutto per i mafiosi. Si dovranno prevedere, invece, soluzioni alternative che vadano incontro ai diritti del detenuto senza trasformarsi in trappole per gli innocenti. Questo, proprio, non s’ha da fare. In un tempo particolarmente difficile come l’attuale, i contrasti tra magistrati in prima linea e ministro della Giustizia addolorano e sconcertano i cittadini, soprattutto quelli costretti a convivere in territori a forte presenza mafiosa. C’è bisogno di unità. Non di scenate, di ripicche e di regali ai malviventi.