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Coronavirus. «Disabili, stop alla segregazione»

MessaggioInviato: mar apr 14, 2020 2:12 pm
da lidia.pege
Coronavirus. «Disabili, stop alla segregazione»
Luca Liverani martedì 14 aprile 2020 AVVENIRE
Nel Bresciano morte 22 malate psichiche su 320 ospiti, in una struttura situata nel castello di Pontevico. L’allarme della Fish: basta con i "luoghi speciali" che umiliano la dignità umana

La pandemia ha mostrato drammaticamente l’insufficienza dei posti in terapia intensiva, triplicati a tempo di record. Anche l’ecatombe silenziosa di anziani e disabili in troppi istituti dovrà costringere il Paese a ripensare il modello socio–sanitario per persone non autosufficienti, di cui il Covid–19 ha mostrato tragicamente i limiti. L’ultimo caso a Pontevico, nel Bresciano, dove in un istituto sono morte per il coronavirus almeno 22 disabili psichiche (28 secondo i dipendenti) sui 320 ospiti, anziani e giovani , senza contare decine di infettati, tra cui circa 70 dei 300 dipendenti.

Al di là degli eventuali aspetti penali relativi alle responsabilità, di errori gestionali o dell’inserimento di contagiati in quarantena in Rsa – micce fumanti dentro a polveriere – la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fi- sh) denuncia l’urgenza improcrastinabile di un radicale ripensamento culturale. Se infatti i decessi a catena negli istituti, da Nord a Sud, saranno materia «per la magistratura o per una commissione di indagine parlamentare che come Fish invochiamo – è la richiesta della Federazione – di certo è ora di mettere in discussione un intero sistema di strutture segreganti, di “luoghi speciali” o spacciati per tali in funzione di pseudo–specialità riabilitative perché indirizzati a questa o a quella condizione patologica».

La Fish non si stupisce che questa ecatombe si sia consumata proprio in quelle strutture «che da anni segnaliamo come segreganti, umilianti della dignità personale, espressione lontanissima a qualsiasi logica di abitare sociale, di inclusione, di prossimità e di trasparenza rispetto al territorio».

Secondo l’Istat – dati disponibili del 2015 – sono 273.316 le persone non autosufficienti o disabili che vivono in circa 3.300 strutture residenziali, di cui 646 per disabili. Istituti che spesso sono stati sigillati ai contatti esterni all’esplodere della pandemia, impedendo i controlli, non i contagi. «Non è più pensabile questo tipo di modello», dice Carlo Giacobini, analista per la Fish sui temi statistici e sociologici. «Bisogna pensare – ragiona – a strutture differenti, vere “case di vetro” dove le parrocchie, i volontari, le Pro–loco possano coinvolgere questi ospiti, tirarli fuori per farli partecipare alla vita dei luoghi». E con la pandemia questi istituti sono stati blindati, teoricamente per proteggere gli ospiti, ma di fatto facendo saltare tutti i controlli esterni: «Ed è successo che il familiare non si è potuto accorgere che magari il vicino di letto tossiva in continuazione».

Il limite del modello attuale, spiegano gli addetti ai lavori, sta nella tipologia di standard richiesti: «Tot medici, infermieri o bagni per tot ospiti, senza però indicatori che rendano questi posti dignitosi.

Sempre ricordando – sottolinea l’analista della Fish – che devono essere l’ultima ratio dopo aver esperito tutti i tentativi per non sradicare le persone dalle comunità e dai territori».

Il risultato sono istituti isolati, «dove le persone non autosufficienti vivono come piante sradicate dalle aree di provenienza, destinate a un precoce essiccamento. È ora di chiedersi se funziona ancora il casermone per 50 o 100 disabili o anziani. Se le Rsa, o anche le Rsd per disabili fossero state da 5 o 10, massimo 15 ospiti, queste mergenze sarebbero state più gestibili anche nel peggiore dei casi». Il taglio dei costi ha spinto alla massimizzazione: «Nelle Marche per esempio – è l’esempio che fa Giacobini – strutture da 15 persone sono state quintuplicate per abbattere i costi. Portando via persone da luoghi in cui avevano sempre vissuto». Proprio in questi giorni, ad esempio, gli specialisti dell’ospedale Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese, nel Torinese, sottolineano l’importanza per i malati di Alzheimer o di altre forme di demenza di proseguire con le routine e le attività a casa in compagnia dei familiari, per compensare il venir meno del sostegno dei centri diurni.

Perché a tenere vive le persone, più o meno autosufficienti, è il rapporto con la comunità e il territorio: «Io da laico dico che molte parrocchie hanno una funzione sociale insostituibile – afferma Giacobini – vero ponte tra situazioni potenzialmente isolanti. Vedo gruppi di anziani che affittano il pulmino, vanno al santuario con gli amici di sempre, si fermano a mangiare al’agriturismo. E tornano pieni di vita. Se li sradichi per spostarli in una casa di riposo a 40 chilometri da dove vivevano, pian piano si spengono». Il Covid–19, insomma, spesso è stato solo un catalizzatore.

«Mi auguro veramente che questo dramma sia l’occasione di un ripensamento globale – conclude Giacobini della Fish – non solo delle modalità di sostegno all’abitare, ma di tutto il sistema sociale e sanitario». Costerà di più? «Si tratta di scelte, di reindirizzare gli investimenti. Spero che gli italiani abbiano capito quali sono i veri pericoli per la sicurezza del Paese. E di quale “difesa” abbia davvero bisogno».