La psiche e il virus

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La psiche e il virus

Messaggioda lidia.pege » mar gen 26, 2021 6:00 pm

La psiche e il virus
22 gennaio 2021/
di: Luigi Benevelli SETTIMANA NEWS

Le misure di contenimento della pandemia – principalmente il distanziamento e l’isolamento fisico – stanno producendo frustrazione, solitudine e forti preoccupazioni per il futuro. Si tratta di reazioni frequenti che tuttavia costituiscono seri fattori di rischio per la salute mentale, con esiti di ansia, disturbi affettivi e da stress post-traumatico. Se provati a lungo, certi stati d’animo possono portare al progressivo esaurimento delle capacità di resilienza psichica.

I disturbi psichiatrici possono quindi rappresentare l’effetto disastroso dell’emergenza virale in atto. È necessario ed urgente disporre pertanto di un quadro rappresentativo per poter mettere a punto interventi appropriati, sia per la popolazione generale, sia, in specie, per i gruppi a maggior rischio sociale[1].

La capacità di operare riscontrata da parte dei servizi sanitari in genere e dei servizi di salute mentale in particolare risulta poco adeguata. Trovo opportuno mettere insieme a fuoco i vari aspetti dell’emergenza.
Le sofferenze dei familiari

Il problema è stato oggetto del Rapporto ISS Covid-19, n. 41/29 maggio 2020. I pazienti Covid-19 vanno incontro a una mortalità elevata. I familiari si trovano ad affrontare situazioni di possibile lutto in condizioni particolarmente angoscianti. Si stima che circa il 10% degli adulti sia a rischio di sviluppare un lutto di tipo “patologico”, ossia un disturbo da cordoglio prolungato, caratterizzato da struggenti sentimenti di perdita, accompagnati da rabbia, sensi di colpa e altri sintomi di intenso dolore che si possono protrarre per più di sei mesi.

Sia per i pazienti affetti da Covid-19 che per i loro familiari, le domande sulla progressione e sull’esito della malattia costituiscono motivo di angoscia. Come noto, ospedali e strutture sanitarie si sono trovate e si trovano a dover limitare o vietare la presenza fisica di amici e parenti in visita. È stato raccomandato di consentire solo brevissime visite ai familiari, qualora non siano loro stessi malati o in quarantena o appartenenti a categorie a rischio.

Ma neppure questo è risultato e risulta sempre possibile. In alcune famiglie si sono ammalate più persone. Altre sono andate incontro a difficoltà economiche. Altre ancora sono risultate impossibilitate a viaggiare per raggiungere i loro cari. Nei casi di decesso in unità di terapia intensiva con difficoltà di comunicazione con i medici curanti e impossibilità di un ultimo saluto, si sono raccolte severe reazioni al lutto. Chi ha perduto un famigliare a causa del COVID-19, è stato facilmente deprivato delle pratiche sociali di accompagnamento che tanta parte hanno nella funzione di ricordo, celebrazione e conforto da parte della comunità.

La pandemia ha determinato impedimenti nello svolgimento dei rituali, come nell’allestimento delle camere ardenti e delle “veglie” funebri. I funerali – spesso rimandati – sono stati celebrati in presenza di un numero limitato di persone o, in taluni casi, sono stati seguiti in videocollegamento da remoto. La facoltà di parenti e di amici di fornire supporto emotivo è stata compromessa dalle loro stesse preoccupazioni di salute, lavoro e ragioni economiche.

In una prospettiva di salute pubblica, questi studi a carattere scientifico conseguono di prendere in più seria considerazione un adeguato sostegno alle famiglie, sia prima che dopo la perdita: prendersi cura degli aspetti psicosociali e di quelli spirituali contribuisce a migliorare gli esiti del processo. Le strutture sanitarie dovrebbero essere attrezzate per questo. Ma purtroppo non lo sono.
I drammi degli operatori sanitari

Anche gli addetti all’assistenza dei pazienti ricoverati negli ospedali e nelle residenze per anziani hanno dovuto e devono affrontare situazioni del tutto inedite. Ne ha parlato la psicologa Nadia Muscialini[2] secondo la quale l’esperienza in corso ha smantellato i meccanismi di difesa degli operatori, specie di quelli impegnati nei reparti di terapia intensiva.

Gli assetti e gli spazi ospedalieri sono divenuti, in breve, molto pericolosi. Le bardature di protezione hanno impedito e impediscono il riconoscimento personale. I vissuti di impotenza ed i timori degli operatori per la salute dei famigliari nelle loro case, testimoniano come la distanza dagli altri amplifichi il sentimento di perdita di sé stessi.

Il 6 marzo 2020, la Società italiana degli anestesisti, rianimatori (SIAARTI) ha pubblicato il documento Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, sollevando il grave problema dei professionisti che, a fronte della esiguità dei posti letto, si sono trovati a dover scegliere chi porre in cura intensiva e chi no.

La SIAARTI ha consigliato di motivare, documentare e comunicare ogni decisione di limitazione delle cure all’équipe di appartenenza e, se possibile, al paziente e alla famiglia.

Il documento – senz’altro inquietante per le scelte che ha suggerito di adottare – ha colpito per l’ammissione di insufficienza e di inadeguatezza delle risorse di cura disponibili, per la descrizione della condizione di solitudine in cui versano i sanitari chiamati a dover decidere in tragiche contingenze.

Aggiungo che in un Servizio Sanitario Nazionale di carattere universalistico quale quello italiano – in cui la qualità delle cure non può essere discriminata in base al reddito e men che meno in base alla gravità della diagnosi, delle prognosi e al costo del trattamento – il mero criterio dell’età non può essere accettato. Le problematiche poste da tali Raccomandazioni non possono risolversi in rovelli di “coscienza” esclusivi degli operatori, bensì devono costituire un terribile grido di allarme che scuota il Servizio Sanitario Nazionale ed investa la società civile tutta.

In merito al documento citato è intervenuto il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) con un parere datato 8 aprile 2020: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del Triage in emergenza pandemica. Di seguito riporto i punti principali.

I criteri della allocazione delle risorse sanitarie, in condizioni di scarsità delle stesse, necessitano della massima trasparenza e devono essere resi noti con chiarezza all’opinione pubblica. Nella condizione di emergenza – segnata dall’isolamento dei pazienti – le difficoltà impongono una particolare e vigile attenzione sul criterio personalistico delle scelte.
Il CNB si è rivolto ai medici e agli operatori sanitari e sociali esprimendo gratitudine, sostegno e consapevolezza della loro assoluta esigenza di non essere lasciati soli. In considerazione di ciò il CNB ha segnalato con preoccupazione la proliferazione di contenziosi giudiziari contro i professionisti della salute nel contesto dell’emergenza pandemica e ha proposto che sia presa in considerazione dal legislatore l’idea di limitare i profili di responsabilità professionale.
Dal Comitato è stata pure attentamente contemplata, per le ragioni già esposte, la solitudine dei pazienti, con la raccomandazione di una particolare attenzione per le persone anziane, per le quali si è rimarcato il diritto a ricevere sempre e comunque cure adeguate e – quando ricoverati in strutture dedicate – ad ottenere le migliori misure di protezione. Le sofferenze per morte provocata da insufficienza respiratoria devono essere evitate attraverso l’adozione di protocolli di terapia del dolore.

Pazienti e servizi di salute mentale

Nell’Aprile 2020 è stato istituito presso l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) il gruppo di lavoro Salute mentale ed emergenza Covid-19 che ha licenziato rapporti sullo stato dei servizi e delle risposte ai problemi delle persone con Covid-19 e dei loro famigliari. Il gruppo ha riconosciuto che l’attuale pandemia riveste un carattere unico.

Per godere di qualche riferimento si deve ricorrere agli studi condotti sull’impatto psicologico dell’epidemia da SARS nel 2003 – con “solo” 8.000 casi riportati e 774 decessi in tutto il mondo – che pure hanno mostrato un incremento del 30% dei suicidi nelle persone con età superiore a 65 anni, sia nei pazienti affetti che guariti.

Uno su due di questi pazienti aveva sviluppato disturbi d’ansia. Sono stati osservati disturbi mentali anche negli operatori sanitari addetti agli stessi pazienti con manifestazioni di grave preoccupazione, patologie post-traumatiche da stress, depressione, sintomi somatici e insonnia nel 77.4% dei casi.

Tra le conseguenze osservate nella popolazione sottoposta a misure di distanziamento fisico e di quarantena sono state elencate l’uso di alcool e di sostanze, la violenza domestica, l’abuso sui minori e, appunto, i suicidi e l’autolesionismo. Tra i fattori stressanti in periodi di prolungata quarantena sono descritti in letteratura il panico diffuso dalla insistente informazione e lo stigma conseguente alla contrazione della infezione.

Fattori compresenti di rischio psicosociale sono facilmente rivenibili nelle difficoltà finanziarie, nella disoccupazione, nella perdita di ruolo, nella perdita di una fissa dimora, nella compromissione delle relazioni significative.

Sono ancora disponibili pochi dati statistici sull’impatto sociale delle misure di lockdown determinate dalla attuale epidemia.

Sempre nella primavera 2020, la Conferenza Nazionale per la Salute Mentale ha lanciato un appello al Governo nazionale e alle Regioni per la riattivazione dei servizi di prossimità, delle attività terapeutiche e riabilitative nel rispetto delle misure di prevenzione e protezione per operatori e persone con sofferenza mentale.

Le richieste sono andate nel verso della ridefinizione dei compiti dei servizi territoriali col contributo della cooperazione sociale e con l’adozione di un piano straordinario di assunzioni di personale multidisciplinare anche nei servizi di salute mentale, per il pronto riavvio, in sicurezza, delle attività di riabilitazione.

In risposta a tali sollecitazioni, il Ministero della salute, a fine 2020, ha emanato una Circolare che detta regole che consentono l’accesso di famigliari e visitatori alle residenze per persone con disturbi mentali, con disabilità fisiche, psichiche e sensoriali: le visite devono avvenire, ovviamente, in sicurezza, con la predisposizione di percorsi e spazi per incontri separati dalle aree comuni.

L’insieme dei servizi di salute mentale vive una condizione di grande criticità da tempi ben precedenti la pandemia. Si potrebbe dire che quanto più questi problemi preesistevano, tanto più le misure anti-contagio li hanno aggravati. Al contrario – ove è consolidata una forte caratterizzazione comunitaria e territoriale, con sistemi di domiciliarità e inclusione – le conseguenze risultano più tollerabili. Vediamo come il virus deflagri in situazioni di residenzialità e convivenza costretta.

La metà dei decessi da Covid-19 in Europa è avvenuta in residenze assistenziali. In Italia si stimano in totale oltre 400.000 persone anziane, minori, disabili, con problemi di salute mentale o di dipendenza, ospitate in strutture residenziali “chiuse”. La pandemia ha rivelato come la separazione dalla società non le abbia protette dalla epidemia e salvaguardate da effetti collaterali di patologia mentale altrettanto gravi. Lo stress pandemico esercita una sovrappressione emotiva sulle persone con problemi di salute mentale e sui loro familiari: questo è vero sia per chi è in carico ai servizi territoriali – oltre 800.000 persone – sia per quanti sono collocati in strutture residenziali – circa 30.000.

Nel primo caso, la riduzione generalizzata delle attività volte a realizzare progetti personalizzati di inclusione sociale pesa non poco sulla efficacia dei percorsi: l’uso degli strumenti informatici solo molto parzialmente può vicariare le attività in presenza. Nel secondo caso, si sono pressoché annullate le occasioni di interazione con l’esterno.

Sui muri del manicomio di Trieste, una cinquantina di anni fa, comparve la scritta “La libertà è terapeutica”: a dire che le persone internate avrebbero potuto migliorare la loro “salute mentale”, – ossia stare meglio soggettivamente e funzionare meglio socialmente – alla condizione indispensabile che potessero uscire dal confinamento in cui erano state, per molto tempo, ristrette. Ritengo che quell’appello sia tuttora valido e che si debba ancora fare di tutto per accoglierlo.

[1] Vincenzo Giallonardo e altri, L’impatto della quarantena e del distanziamento fisico in seguito a Covid-19 sulla salute mentale: protocollo di studio di uno studio multicentrico sulla popolazione italiana, «Frontiers in psychiatry», 2020, pubblicato on line il 5 giugno 2020. v. anche Sara Lavorini, Covid: lockdown e crisi economica alimentano patologie psichiatriche, «Il sole 24 ore sanità», 26 ottobre 2020.

[2] Nadia Mascialini, Il guaritore infetto – la cura ai tempi del coronavirus, ed. La meridiana, Molfetta, 2020.
Lidia Pege
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