Chi protegge Matteo Messina Denaro?

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Chi protegge Matteo Messina Denaro?

Messaggioda lidia.pege » mar lug 14, 2020 2:56 pm

Chi protegge Matteo Messina Denaro
Le donne, le auto, la famiglia, le complicità nello Stato e i grandi affari di Cosa Nostra. Il libro che svela i segreti del Boss latitante da decenni
di Piero Melati
14 luglio 2020 ESPRESSO

Alla vigilia del grande Maxiprocesso di Palermo, Giovanni Falcone tenne una scottante “lectio” sulla mafia ad una platea di addetti ai lavori, in un albergo siciliano sul mare. In quella occasione spiegò che non era mai esistito, nel codice di Cosa Nostra, un termine come quello di “terzo livello”. I boss, affermò, non si facevano comandare da nessuna più alta e misteriosa entità. Ma quel giorno Falcone rivelò anche una novità sconvolgente: per la prima volta, disse, la mafia si era quotata in Borsa. Quando, alla fine dell’intervento, Falcone si concesse un caffè al bar dell’albergo, insieme a Paolo Borsellino, l’aria si fece elettrica. Tutti volevano saperne di più. I due giudici, sorridendo, rifiutarono ogni ulteriore commento. Ma i più avveduti avevano comunque capito che il riferimento era diretto al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini.

Ricordate le imprese del natante “Moro di Venezia”, che appassionò l’Italia dei velisti? E poi la scalata alla Montedison, la nascita e il fallimento di Enimont? È proprio all’ombra di questi nuovi affari che inizierà ad allungarsi sulla storia italiana l’ombra di Matteo Messina Denaro, detto “u siccu” (il magro), considerato uno dei latitanti più pericolosi al mondo. “U siccu” è il boss che ha mandato in soffitta bombe e lupare, preferendo decisamente listini e capitalizzazioni. Attenzione: l’ultimo fuggitivo del clan dei corleonesi ha effettivamente attraversato tutta la stagione terrorista a fianco di Totò Riina; è stato apertamente uno degli irriducibili comandanti dell’offensiva contro lo Stato, a suon di attentati e stragi, nel biennio ’92-’93. Ma poi è stato anche lesto a riposizionarsi, intravedendo per primo i nuovi business all’orizzonte.

Sul “secco” si è detto tutto e il contrario di tutto: è come Diabolik, non si nasconde in Sicilia, gira il mondo, guida una Aston Martin armata di mitragliatori, come 007. Si è scritto persino che non esiste: è solo un simbolo, un fantasma.

Tutte leggende. Ora Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso, già autore dell’inchiesta su “Mafia Capitale”, rimette il boss con i piedi per terra, citando proprio il caso Ferruzzi-mafia, già nella prima parte del suo “U siccu, Matteo Messina Denaro: l’ultimo capo dei capi” (Rizzoli).

Affari, anzitutto grandi affari. “U siccu” ha fatto riemergere l’anima originaria di Cosa Nostra. Affari grandi e affari sporchi: per questo il ricercato numero uno, spiegano i suoi cacciatori, resta ancora oggi così pericoloso. La sua strategia non prevede più separazioni tra illegalità e istituzioni economico-finanziarie, tra politica e crimine, tra amministrazione centrale e poteri occulti. Una metamorfosi sistemica messa a punto già durante la lunga parentesi successiva alle stragi, quando dopo la cattura di Riina (gennaio 1993) Bernardo Provenzano ha governato Cosa Nostra siciliana di nuovo nell’ombra e nel silenzio, fino al suo arresto del 2006. Da quel giorno “u siccu” - ormai affrancato da ogni padrinaggio - ha proceduto da solo. Abilissimo e imprendibile.

Chi è davvero Matteo Messina Denaro? Anzitutto, racconta Lirio Abbate, è la pietra di paragone della storia italiana. Se leggiamo attentamente le sue gesta, scopriamo che squadernano le nostre abituali ricostruzioni sul crollo della Prima Repubblica. Abbate mette in rilievo un dato, che si registra tra l’86 e l’87, gli anni del Maxiprocesso: la mafia fa confluire i suoi voti nelle liste elettorali dei socialisti e dei radicali di Pannella, non sentendosi più protetta da quei settori della Democrazia cristiana con cui era più abituata a “trattare”. A conferma, il 31 gennaio del 1992, la Cassazione mette il bollo definitivo alle condanne del Maxiprocesso. Cosa Nostra si sente definitivamente scaricata dai vecchi protettori. E si vendica. Vengono uccisi il potente esattore Ignazio Salvo e l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima. E intanto, il 17 febbraio del 1992, scoppia a Milano l’inchiesta Mani Pulite.

Ma che relazione c’è tra le due cose? Nel gennaio del 2020, ricorda ancora Abbate, in una clamorosa intervista a “L’Espresso”, l’ex pubblico ministero di Mani Pulite Antonio Di Pietro dice a Susanna Turco: «Mani Pulite è una storia che andrebbe riscritta . Mani Pulite non l’ho scoperta io: nasce dall’esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Falcone riceve riservatamente dal pentito Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l’accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia... Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio del 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire».

Michele Sindona, Roberto Calvi, Raul Gardini, tre casi clamorosi di alta finanza internazionale finiti poi in odor di mafia. È questo lo spessore vero dell’ultimo latitante siciliano. Quando il 20 settembre del 2013 arriva la notizia della confisca di tre milioni e mezzo di euro al re dell’energia alternativa Vito Nicastri , che ha impiantato nel trapanese centinaia di pale eoliche, imprenditore considerato vicino a Matteo Messina Denaro, si capisce che “u siccu” sta battendo quelle piste, che per lui non sono nuove. Già il 16 settembre del 1992, a pochi mesi dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, in uno studio legale romano, era stato stretto un accordo tra algerini e maltesi per la costruzione di un complesso turistico da 1800 miliardi di lire. L’operazione, coordinata dai clan, serviva a riciclare il denaro del “secco”. Il grande latitante, nativo di Castelvetrano, figlio del boss Francesco, vera aristocrazia mafiosa, è stato un manager d’affari sin dalle origini. Bombe, stragi, guerre, solo quando occorre. Poi soprattutto “piccioli”. Quelli occorrono sempre.

Il ruolo di Matteo Messina Denaro nelle stragi di Capaci e via D'Amelio
Il boss è sotto processo con l'accusa di essere uno dei mandanti degli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino e degli uomini delle loro scorte
Non esiste boss che abbia parlato più di Matteo Messina Denaro. Di lui sono state ritrovate lettere private, “pizzini” scambiati con Provenzano, un intero epistolario (sotto i suggestivi soprannomi di Alessio e Svetonio) intrattenuto con Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, accusato di favoreggiamento. Uno scambio di lettere durato quasi due anni, dal 2004 al 2006. Vaccarino si è sempre difeso sostenendo di operare per conto dei servizi segreti. La successiva scoperta del tradimento da parte di ufficiali della Dia ha scoperchiato una estesa rete di protezioni e complicità, complicata quanto un labirinto. Difficile distinguere chi lavora a catturarlo da chi, facendo finta di braccarlo, gioca nella sua stessa squadra. Ora Abbate aggiunge anche un significativo inedito: l’unico verbale ufficiale che raccoglie le dichiarazioni del boss quando, nel giugno dell’88, a 26 anni, venne fermato e interrogato.

L’inchiesta di Abbate ci rivela la sua mezza dozzina di storie d’amore, la passione per la PlayStation e la musica classica, l’amore per le auto sportive, i rapporti con la madre e le quattro sorelle, l’esistenza di una figlia mai vista e dalla quale ha dovuto accettare scelte di vita non conformi alla ortodossia mafiosa. I tempi cambiano ma “u siccu” resta soprattutto un boss con il “cappuccio”. Trapani, il suo regno, è una miniera di logge non dichiarate. Una rete molto estesa, che ha fatto tornare il sospetto sull’esistenza, dentro Cosa Nostra, di un vertice segreto, un grado superiore, una “élite” chiamata a gestire enormi e intracciabili patrimoni.

C’è consenso, nel territorio, attorno al “padrino”? Come i grandi narco-leader messicani (gli Escobar, i Chapo) Messina Denaro non spreme la gente. Ha una regola: il “pizzo” lo pagano solo le grandi imprese. Il boss ha dato vita a una sorta di “welfare mafioso”: investe, aiuta, sostiene bisognosi e familiari dei detenuti, in cambio dell’invisibilità. Del “secco” non esistono impronte digitali, foto segnaletiche, registrazioni del timbro della voce. E nessuno che l’abbia descritto di recente. Nessuno, mai, che lo tradisca.

Il suo regno è stato imbottito di telecamere, microspie, registratori. Da anni, nel trapanese, ci si scherza. Microtelecamere e invisibili microfoni sono stati piazzati anche sulla lapide del padre Francesco. Una delle sorelle, in visita al cimitero con le zie, l’ha scoperto. «Nella tomba di papà c’è il Grande Fratello», ha commentato. Il padrino in fuga soffre di una malattia degenerativa della cornea, così è stato cercato anche nelle cliniche di Barcellona. Ma niente. Gli inquirenti hanno trovato tracce dei suoi viaggi d’affari (Austria, Svizzera, Grecia, Spagna, Tunisia), di collegamenti con Francia e Germania, di canali aperti con paesi produttori di cocaina. Si dilegua sempre in tempo. «Ha la forma dell’acqua, come il romanzo di Camilleri», annota Lirio Abbate.

E oggi? Attraverso Vito Nicastri, l’imprenditore delle pale eoliche condannato nel 2019 a nove anni, è emerso il nome di Paolo Arata, ex deputato di Forza Italia passato alla Lega, esperto di ambiente. Arata ha scritto il programma leghista sull’energia e sosterrà di aver avuto un ruolo determinante nella nomina del senatore leghista Armando Siri a sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Conte I. Arata dirà al figlio, in una conversazione intercettata, che presto grazie a Siri saranno varate norme per favorire gli investimenti siciliani di Nicastri. Lo stesso figlio di Arata otterrà una consulenza a Palazzo Chigi. La Procura di Palermo definirà Arata “prestanome” di Nicastri e quest’ultimo “capofila” di una fitta rete che assicura “corsie preferenziali e concessioni” ai nuovi investimenti. Dietro i quali si staglia sempre l’ombra di Matteo Messina Denaro, l’ultimo imprendibile.
Lidia Pege
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